“Nel nostro cielo solcato da satelliti brilla ancora la luce di una stella divina. E non potrebbe essere diversamente: tutta l’evoluzione tecnologica dell’umanità ha radici spirituali, forse persino mistiche“. Così si legge dietro la copertina di Algoritmi e preghiere, saggio pubblicato nel marzo 2024 da Guerino Nuccio Bovalino, sociologo, studioso della comunicazione e dei processi culturali, nonché membro del Laboratoire d’Études Interdisciplinaires sur le Réel et les Imaginaires Sociaux all’Université Paul Valéry di Montpellier e del CEAQ, Centre d’Études sur l’Actuel et le Quotidien. L’indagine che Bovalino affronta nel saggio riguarda il rapporto di costante tensione vertiginosa tra sacro e tecnico, misticismo e progresso, uomo e macchina, ponendo come fondamenta al discorso analogie apodittiche tra passato, presente e futuro, simboli ancestrali che emergono con forza in ogni fare umano, domande di senso ineludibili che, nonostante il famigerato avanzare di una tecnologia sempre più sofisticata, irrompono nell’uomo dalla sua più intima e indefettibile essenza. Su questa scia di senso l’autore ci fa immergere fin da subito in un canto mistico che apre le prime pagine del libro, dove racconta di un reale ricordo d’infanzia: anziane donne del profondo Sud, vestite di nero, intonano una preghiera sulle rive del mare sul quale riversava una potente tromba d’aria. Iniziano a murmuriare per scongiurare l’avvento della sciagura sulle barche dei loro mariti salpati per pescare. Una di loro estrae un coltello e inizia a fendere l’aria come per squarciare la tromba d’aria: poco dopo essa scompare e il cielo si rasserena.
Ecco, che cosa vuol dire il gesto di questa donna anziana che lei rievoca?
Il libro inizia con una immagine recuperata dall’archivio della mia infanzia: una donna che, in uno stato di trance mistica, prova ad arrestare la tromba d’aria recitando delle preghiere e mimando il gesto di “tagliarla” con un coltello. La donna era preoccupata per il marito che si trovava in mezzo al mare con la barca per pescare. Riflettendo su quel gesto, mi sono reso conto che la donna aveva messo in atto una tattica identica a quella insita nelle innumerevoli tecniche salvifiche da sempre utilizzate dall’uomo. L’esigenza umana di avere una forma illusoria di controllo sull’esistente, infatti, può sublimarsi tanto in preghiere mistiche quanto in pratiche tecnologiche alle quali si delega il compito di gestire la nostra vita. Sono tattiche con cui proviamo a padroneggiare la vita. Il gesto della donna rappresenta una tecno-difesa arcaica dinanzi a un evento imprevedibile. Un rimedio metafisico che in nulla differisce, nella radice intenzionale, da quello che proviamo a porre attraverso tecnologie più avanzate e sofisticate.
L’umanità fin dai suoi albori ha sempre proiettato il proprio desiderio di senso su una determinata forma, fosse essa religiosa, artistica, spirituale. Secondo lei qual è la forma principale su cui l’uomo contemporaneo ha riposto il riflesso della sua condizione esistenziale?
È un processo storico per cui gli uomini hanno proiettato sugli Dei, su un Dio e, dopo l’Illuminismo, sul nuovo totem, la Tecnologia, che oggi viene declinata nella forma tecno-deistica di Intelligenza Artificiale. A essa affidiamo l’eterno compito di salvarci dalla morte e anche dalla vita. Dalle sofferenze e dalle pesantezze della vita, intendo.
Il secondo capitolo si intitola “Mostri”: in cosa si identifica il mostruoso oggi?
Il mostruoso oggi rimanda sempre di più al “monstrum”, significato etimologico di mostro che vuol dire prodigio, segno divino, ammonimento e avviso. Mi pare calzante questa interpretazione poiché viene tacciato di mostruosità tutto ciò che non rientra nella normalità che alcuni hanno stabilito in maniera arbitraria come unità di misura delle cose del mondo. Mostro è il nome con cui una parte della società chiama ciò che non riesce a controllare, quello che rifugge dal “luogo comune”, che non è conforme alle regole di si sente investito del ruolo di custodi dell’ortodossia progressista. Ergo, Viva il mostro.
Lei scrive che la metropoli innesca inedite forme di religione profana, in cui divinità assumono le sembianze di mostri ibridi, come risultato delle relazioni perverse fra umano e disumano, organico e inorganico…
La tensione fra gli esseri umani e l’esistente – fino a quel momento risolta attraverso la proiezione salvifica personificata da dèi e divinità – con la Rivoluzione industriale, e la naturale conseguente nascita della metropoli, si riconfigura nella nuova dialettica uomini-macchine. Frankenstein rappresenta il mito fondativo di questa inedita configurazione dell’immaginario: da un esperimento scientifico nasce una creatura costituita da parti diverse di più corpi, una metafora della massa indistinta che ha con-fuso gli esseri umani nel magma indistinto della nuova metropoli, ibridando gli uomini e le macchine con le quali operano nelle fabbriche e dalle quali vengono agiti.
Si può dire, riprendendo Benjamin, che la prostituta è il simbolo della società contemporanea?
La nostra è una società “pornografica”. Per Benjamin la figura che meglio incarnava il nuovo spirito della metropoli era la prostituta. Se la metropoli è il luogo del piacere, del consumo di ciò che è effimero, un hic et nunc in cui si scioglie ogni paradigma utilitaristico, la prostituta è colei che incarna tale consumare consumandosi, esibendosi nel ruolo di merce e venditrice. Corpo che si fa carne, carne che si offre come dépense improduttiva, meglio, produttrice di un piacere che (s)finito si placa per poi ritornare a essere spasimato. Un piacere che si fa routine, abitudine ciclica. Consumo ripetitivo e insaziabile, un piacere istantaneo che con la sua consumazione accende un nuovo desiderio. Le riflessioni di Benjamin hanno una chiara assonanza con la nostra società che vive consumando e mai trovando quiete, costretti come siamo tutti alla ricerca continua di soggetti e oggetti con cui placare momentaneamente il vuoto interiore. Con un effetto placebo.
È molto evocativa l’immagine che lei adotta riferendosi allo schermo che noi tutti oggi abbiamo davanti: “Esso è divenuto la chiave di accesso alla vita, al mondo. E’ la tana del Bianconiglio nella quale come novelli alice siamo caduti, volontariamente”…
Lo schermo è un buco nero dentro cui ci immergiamo quotidianamente. Attratti dallo “splendore” delle luci che emana, ci troviamo avvolti da un liquido amniotico immateriale. Lo smartphone è divenuto il cordone ombelicale da cui traiamo nutrimento. È il compiersi della Società Schizomediatica, dove i social media come una madre ambivalente ci costringono a vivere in una continua tensione fra l’apprezzamento degli altri utenti per le nostre tracce digitali e la loro improvvisa indifferenza. Un’altalena emotiva che ci rende prigionieri felici, una dipendenza che è patologica, nel senso del significato di pathos che indica una passionalità che riecheggia la tragedia e l’irrisolto.
L’avvento dei nuovi media digitali, come lei sostiene, ha trasformato l’utente in prosumer, ossia il consumatore in produttore di informazioni e di contenuti. Si può parlare all’interno di questo scenario di libertà di espressione?
La rete si credeva potesse costituire il dispositivo capace di alimentare una nuova forma di democrazia globale digitale. Ognuno avrebbe potuto finalmente divenire parte del processo di costruzione della realtà, partecipando attivamente e divenendo protagonista della vita politica. L’individuo divenuto prosumer si è mostrato però poco avvezzo a divenire un militante del blocco progressista. La rete ha infatti alimentato la nascita di comunità poco conformi alle direttive del mainstream, soggetti difficilmente incanalabili nel progetto del loro mondo “perfetto”. Non è un caso che la rete rappresenti uno strumento chiave nella crisi del progressismo, poiché essa ha offerto visibilità a una maggioranza silenziosa. Proprio per tale motivo, negli ultimi tempi c’è un tentativo, da parte di alcuni proprietari delle maggiori piattaforme, di istituzionalizzare la rete, “bonificarla”, al fine di contenere queste spinte libertarie che loro considerano “errori del sistema”. Da resettare, perciò.
In che senso Squid Game, di cui lei fa una approfondita analisi, è l’immagine plastica della fine del capitalismo tradizionale?
Squid Game è la miniaturizzazione del Capitalismo, rappresentato nella attuale fase crepuscolare e cupa che lo caratterizza. Il “gioco del calamaro” esaspera gli aspetti chiave della società che abitiamo: competizione estrema, egoismo, individualismo spregiudicato. La serie è la metafora di un capitalismo che abbiamo metabolizzato e da cui siamo dipendenti, al punto da accettarne le nefandezze. È proprio tale assuefazione che consente al Capitalismo di non doversi più mascherare con lo splendore luccicante ed evanescente delle merci e del consumo, potendosi mostrare ormai nella dimensione più cupa e “violenta”, non temendo alcuna ripercussione.
Lei sottolinea che Barbie è un oggetto da valutare con attenzione perché raffigura la volontà dell’uomo prometeico contemporaneo di desensibilizzare il dolore, giacendo illuso dell’utopia della perfezione che è propria del non umano…
Barbie è la metafora perfetta di una società che sceglie di trasferire nel consumo asettico la sete di assoluto. La Barbie è simbolo di perfezione e bellezza, raggiunte attraverso la plastificazione del vissuto e la cristallizzazione nell’inorganico di ogni desiderio, estetico ed etico. Mi pare un oggetto che incarna metaforicamente una concezione della vita della quale ognuno di noi fa esperienza quotidiana: l’incapacità di una connessione reale con la n dimensione interiore, il non saper soffrire, il non voler fare i conti con gli aspetti più difficili insiti nell’essere umani e perciò fragili.
Quale potrebbe essere la chiave per vivere autenticamente questo mondo fatto di “algoritmi e preghiere”?
La “mia” chiave è nel libro. Ma ogni porta ha la propria.