Le “Vele” di Scampia. Ma anche il Ponte Morandi di Genova. O la Torre dei Moro di Milano… un elenco di orrori architettonici la cui bruttezza è direttamente correlata ai disastri che hanno causato alle vite delle persone, all’ambiente, al paesaggio, al clima culturale. L’elenco potrebbe andare avanti a lungo, citando scuole crollate in testa ai bambini, ospedali fatiscenti, viadotti stradali rovinati su ignari passanti… Tutte strutture accomunate da un dettaglio: essere state costruite nello “stile” – virgolette d’obbligo – della cosiddetta “architettura internazionale”. Lo stile decostruzionista (in senso filosofico, non limitato alla corrente architettonica più moderna che mena vanto di questo epiteto), che per circa un secolo ha sfruttato le possibilità date dai nuovi materiali – cemento, acciaio, vetro, plastica – non per migliorare gli edifici ma per combattere il bello e l’armonioso.
Il decostruzionismo, teorizzato formalmente in filosofia da Jacques Derrida fra gli anni ’70 e ’90 del secolo scorso, era già in atto in architettura da decenni. E aveva marciato insieme alle teorie di ingegneria sociale secondo cui gli esseri umani dovevano essere “ricostruiti” secondo i desiderata del potere. Guardare in prospettiva cosa abbiamo combinato nel XX secolo, fossero le dittature totalitarie o le democrazie capitaliste, fa accapponare la pelle: perseguitare la bellezza, rifuggendola scientificamente, chiudere a milioni gli esseri umani in strutture orribili affinché siano costretti ad adattarvisi – come fossero carcerati – e non fare il contrario, come s’è sempre fatto per millenni, ovvero costruire le strutture attorno agli esseri umani secondo le loro necessità.
Quella delle “Vele” è una delle tantissime architetture costruite per far stare male chi vi vive dentro e chi le vede da fuori. Oltre al decostruzionismo ante litteram che ha mosso la matita del loro progettista, Francesco Di Salvo (1913-1977), c’era anche un’ideologia mostruosa di stampo marxista: secondo Di Salvo le unità abitative (già chiamare le case “unità abitative” fa rabbrividire) dovevano essere minimali. Quanto basta per non dormire in piedi, và. Il resto della vita degli abitanti (o dovremmo chiamarli “deportati”?) delle “Vele” doveva svilupparsi negli “spazi comuni”. E non è Orwell, Zamjatin o Bradbury, coi loro romanzi di fantascienza. È urbanistica applicata. Un’idea nata nel 1929 nella disastrata Germania di Weimar – il termine originale era Existenzminimum, ossia abitazione per il “livello minimo di esistenza” – e nonostante l’evidente fallimento estetico e umano ottenuto in quasi un secolo di disastri è ancora una delle stelle polari di molti degli architetti contemporanei (che però si guardano bene, in genere, dall’abitare in una delle “unità minime abitative” che progettano per la vil plebaglia).
Così le città di tutto il mondo sono state riempite di mostruosi falansteri che univano alla necessità di procacciare un tetto a basso costo ai proletariati urbani la ricerca consapevole della bruttezza estetica e della forzatura dei rapporti umani.
Si poteva però scegliere una via diversa? Si dirà, infatti, che la necessità di dare un tetto ai poveri era più impellente che perder tempo dietro a considerazioni d’ordine estetico.
Ma questo è un paralogismo, anzi, un vero e proprio falso ideologico. Chiunque studi la natura degli abomini architettonico-urbanistici come Corviale, lo Zen o le Vele può constatare come la ricerca scientifica della struttura-alveare fosse prioritaria, a prescindere dai costi. Una struttura popolare semplice, elementare sarebbe stata infinitamente meno complessa e costosa. Invece si sono spesi fiumi di denaro degni di miglior causa per abbrutire e abbruttire umani e paesaggio. Con lo scopo dichiarato di creare un “uomo nuovo” secondo l’ideologia neomarxista e rimodellare il paesaggio tradizionale identitario italiano. Il fatto che gli stessi stili architettonici – mutatis mutandis – fossero del resto applicati dai palazzinari durante i “sacchi” delle città italiane nel dopoguerra (chi ha partecipato al Festival delle Città Identitarie di Pomezia ricorderà il lungo excursus su Umberto Lenzini, uno dei “palazzinari” che ha dato forma alle periferie borghesi della Capitale) alle case signorili, i concetti anti-estetici dell’architettura contemporanea erano tutti uguali. Tutti improntati al brutto e alla scientifica ricerca dell’anti-armonico. E il bello è che – a sentir i protagonisti di queste sciagurate imprese – la colpa del loro fallimento non è nella loro intrinseca natura maligna, bensì nel fatto di non essere state “compiute” come da progetto. Guardacaso, oh, manca sempre un dettaglio senza il quale quelle magnifiche sorti e progressive che erano a portata di mano non si sono potute realizzare. Anzi, si sono trasformate in un incubo sociologico. Strano che la stessa cosa non si sia mai verificata per qualunque altro “incompiuto” architettonico del passato.
Il pensiero infatti non può che andare a quelle esperienze alternative, durate lo spazio di qualche decennio all’inizio del secolo scorso: le Città Giardino, come Piazza Sempione o la Garbatella Vecchia a Roma. A differenza della spasmodica ricerca di troncare col passato degli architetti modernisti, queste esperienze pescavano a piene mani dalla tradizione: tenevano il buono, scartavano ciò che era sorpassato. L’idea era costruita attorno all’uomo, non l’uomo spinto a forza dentro un’idea perché ne prendesse la forma o restasse storpiato nel tentativo.
Le esperienze del passato, del resto, erano utilissime: pensiamo a Terre del Sole, al confine fra Toscana e Romagna, voluta dai Medici come città-modello e manifesto del loro splendore. Un borgo rinascimentale le cui case erano pensate (fra l’altro) per ricevere la massima illuminazione durante il giorno (per chi non lo ricorda, nel Cinquecento non c’era la corrente e le candele costavano uno sfacelo). Così negli anni dell’Italia giolittiana furono avviati i quartieri-giardino nelle città italiane, con lo scopo di dare abitazioni decenti al popolo. E per “decenti” si intendeva esattamente rispondenti a criteri umani di decoro, dignità, rispetto. Non erano imposti dall’alto, da architetti-demiurghi, ma riconosciuti dai progettisti e – per quanto possibile – assecondati. Case piccole ma adeguate alle esigenze delle famiglie, giardini privati o spazi collettivi ma gestiti da comunità di limitate dimensioni. I servizi – la piazza per il mercato, la chiesa, la scuola e l’ufficio postale in testa – forniti dallo Stato, ma il resto lasciato alla libera imprenditoria. Altro che “bagni in comune” e “teatri collettivi” per “socializzare”.
È possibile oggi ripensare un’architettura così? Negli anni Ottanta ci provò Berlusconi, con Milano 2 e Milano 3. Città-giardino, urbanisticamente ben costruite, ma ancora viziate dall’architettura internazionale che allora era la Fede Unica a cui era obbligatorio aderire per poter sedere a un tecnigrafo.
In tutto il mondo però si moltiplicano i casi di “rigenerazione urbana” in cui si abbattono abomini modernisti per sostituirli con strutture tradizionali: sia esteticamente (con facciate simmetriche, ornate, armoniose) che per struttura (muratura portante, materiali naturali). Da anni l’architetto e docente Ettore Maria Mazzola (University of Notre Dame di Roma) propone la demolizione dei ghetti suburbani costruiti nel dopoguerra per ricostruirli come città-giardino in stile primi del Novecento. Progetti interessantissimi, che propongono anche l’aumento della popolazione che potrebbe essere ospitata nei nuovi quartieri-giardino rispetto a quella che è ammassata attualmente negli alveari modernisti.
Puntualmente i suoi progetti e quelli dei suoi allievi per il Corviale o Bastogi a Roma vengono ignorati dalle autorità. Che continuano a spendere milioni di euro per il mantenimento delle fatiscenti mostruosità in cemento armato dove la gente vive male. E – come alle Vele di Scampia – può anche morire.