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Scrivevano nel 2004 Erica Corbellini e Stefania Saviolo, docenti dell’Università Bocconi nel saggio “La scommessa del made In Italy: il Made in Italy “[…]beneficia dell’effetto Rinascimento, inteso come , oltre al bello, il ben fatto: l’espressione bello e ben fatto indica, oltre all’estetica, la capacità di lavorare e nobilitare la materia innanzitutto in senso progettuale. Da questo punto di vista il saper fare italico deve molto alle botteghe e alle corporazioni di arti e mestieri nate nell’Italia rinascimentale”.
L’espressione “made in Italy” perde nel tempo la sua connotazione geografica per assumere una preziosa e quasi iconica valenza identitaria e culturale. Scriveva Carlo Marco Belfanti in Storia culturale del Made in Italy nel 2019: “il processo di cambiamento del Made in Italy da mera indicazione del luogo di fabbricazione ad attestato di appartenenza a un Paese identificato come depositario di un insieme di riferimenti culturali, estetici e produttivi, prende pienamente e completamente avvio a partire dagli anni Ottanta del Novecento”.
Il concetto dilaga quasi “sversandosi” anche nel linguaggio della musica pop degli anni ’50: “Mambo Italiano, scritto proprio così in italiano, conquista la prima posizione nelle hit parade inglesi e americana. La prima versione è quella di Rosemary Clooney, rilanciata da tanti altri indimenticabili artisti come Renato Carosone.
Chi non ricorda poi la t-shirt di Madonna nel video Papa don’t preach con la scritta “Italians do it better” (vale a dire “gli italiani lo fanno meglio”)? Sì, certo, il complemento oggetto e sottinteso della frase si riferiva al fare l’amore. Non al fare un’automobile. Dal make al do. Modi diversi di scrivere, dire e fare nella lingua inglese. Ma nell’immaginario collettivo internazionale l’Italia rimane comunque la patria del fare.
Di divagazione in divagazione si arriva ai primi anni 2000 col film The Italian Job, di Felix Gary Gray, con un cast quasi stellare: da Charlize Theron (il cui mirabile fondoschiena molti di voi ricorderanno in un famosissimo spot della Martini, altra icona del made In Italy, sul finire degli anni ’90) a Edward Norton passando per Mark Wahlberg. Era il remake del film Un colpo all’italiana, diretto da Peter Collison nel 1969: un gruppo di esperti rapinatori statunitensi mette a segno un colpo milionario con una tattica studiata alla perfezione, rubando una cassaforte contenente dei lingotti d’oro da un palazzo di Venezia. Qui ci si allontana dallo stereotipo dell’italiano mariuolo che tanto piace alla narrazione autorazzista di molti intellò di sinistra pronti sempre a denigrare il nostro Paese. Italianità come sinonimo di ingegno e creatività nel bene come nel male.
L’Italia è tra i primi dieci esportatori mondiali. Nel 2021 l’export ammontava a circa 516 miliardi di euro (Annuario statistico italiano 2022, ISTAT). Un importo pari a circa il 29 per cento del PIL nazionale.
Una proiezione mondiale più che europea, dal momento che negli ultimi anni poco più della metà delle esportazioni è stata rivolta ad altri Paesi europei. Dopo Germania e Francia, che assorbono rispettivamente il 13% ed il 10% delle nostre esportazioni, arrivano gli Stati Uniti d’America col 9,6%.
“Se si considera l’insieme delle filiere dei prodotti agro- alimentari, del tessile, dell’abbigliamento, calzature, pelletteria, gioielleria, lavorazione dei minerali non metalliferi e dei mobili, si osserva che l’importanza di questo aggregato nell’export mondiale è rimasta grosso modo stabile negli ultimi venti anni, intorno al 20%” riporta il documento conoscitivo approvato dalla Commissione delle Attività Produttive presieduta da Alberto Gusmeroli e fatta propria dal Ministro delle Attività Produttive Adolfo Urso nella predisposizione di un disegno di legge inerente la valorizzazione del Made In Italy. Un tema economico e culturale di profonda importanza e rilevanza, tanto da prevedere l’istituzionalizzazione di un vero e proprio liceo del made In Italy quale tappa fondamentale del percorso di studio dei nostri giovani.
Forte intanto la ripresa del turismo nazionale ma soprattutto internazionale dopo la fine delle restrizioni pandemiche. Secondo l’indagine Enit 2022, su 5.004 viaggiatori stranieri, il 22,2% indicava “il buon mangiare e bere” tra le principali ragioni di scelta dell’Italia come destinazione turistica. Il cibo come l’arte sono la massima rappresentazione dell’eccellenza del nostro made in Italy. Nel 2019, secondo il XVI Rapporto sul turismo del vino in Italia, l’enoturismo ha registrato circa 15 milioni di visite, per un giro di affari da circa 2,65 miliardi di euro.
Siamo di fronte ad un nuovo rinascimento economico? Le risposte sono due: ed entrambi vere. La prima è che è presto per dirlo. La seconda è che comunque dipende solo e soltanto da noi. E le basi da cui partire comunque ci sono tutte.
Nei primi venti anni di moneta unica -fino al 2019- l’Italia ha sperimentato la sua più bassa crescita economica di sempre. Lo 0,4% annuo contro un +3,5% del trentennio che va dal 1961 al 1998. Frutto anche e soprattutto di un crollo della produzione industriale: -17% contro un +22% della Germania. Allargando lo sguardo all’intera eurozona, il tasso di media annuo di crescita è stato complessivamente pari all’1,4%. Se nel 2019 avevamo un PIL di circa 1.730 miliardi di euro, ne avremmo avuto 2.100 qualora fossimo cresciuti come gli altri. Magia (nera) della moneta unica quale media delle valute nazionali da cui è sorto. Un marco sottovalutato ed una lira sopravvalutata. “Molte più BMW che Alfa Romeo nel nostro Paese”, osservava il Governatore emerito della Banca d’Italia Antonio Fazio in un’intervista concessami un paio di anni da. Immaginate una persona di 100 kg con addosso uno zaino di 30 ed una di 70 con uno di 20. Ad un certo punto si decide di redistribuire il peso in parti uguali. Chi pesava un quintale avrà 5 kg di meno sulle spalle guadagnando in agilità. Il compare sfortunato viceversa no. Ecco, noi eravamo il compare.
La fine della pandemia ci restituisce però un quadro sorprendente. Dal 2021 al 2023 l’Italia cresce sistematicamente più di tutta l’eurozona. L’industria italiana –quella che ancora non è morta- combatte e fa bene. Siamo forse più resilienti, come va di moda dire oggi? Siamo di sicuro meno vulnerabili a questi nuovi ed imprevedibili caos.
“Tolta l’energia, abbiamo una bilancia commerciale positiva di 97 miliardi di dollari. La sesta al mondo dietro Cina, Germania, Giappone, Corea e Taiwan. Berlino dipende soprattutto da auto e La Corea dall’elettronica e le telecomunicazioni. Noi non abbiamo grandissime aziende e neppure grandissimi comparti. Sa questo cosa significa? Che se a Taiwan togli i semiconduttori vanno in rosso. Se a Giappone e Corea togliamo i primi cinque comparti di export, scendono ad appena 20 miliardi di dollari. Ma se all’Italia togliamo i primi cinque comparti (soprattutto auto di lusso come Ferrari e Maserati, farmaceutica, agroalimentare in particolare vino) perdiamo ‘appena’ 27 miliardi su 97”: osservazioni formulatemi mesi fa dall’economista Marco Fortis dell’Università Cattolica e che mi ritornano provvidenzialmente alla memoria.
Ciò che conta, mi diceva l’imprenditore del packaging Antonio D’Amato, noto al grande pubblico come ex Presidente di Confindustria, è “tornare a scommettere sulla manifattura. Senza manifattura competitiva non c’è ricerca. Niente innovazione. Zero investimenti. Niente benessere e niente equità sociale; indispensabili per salvaguardare pace e stabilità”.
Intanto, tra questo tripudio di bellezza e di versatile capacità imprenditoriale e artigianale, sul versante giudiziario, la telenovela continua. Con gli sceneggiatori e i registi di sempre. Assolto, “per non aver commesso il fatto”, dopo trent’anni di processi, dalla cosiddetta trattativa Stato-mafia, per Dell’Utri, infatti, riprendono le perquisizioni e i sequestri con l’imputazione di avere «organizzato e attuato la campagna stragista e a creare le condizioni per l’affermazione di Forza Italia». Con nel mirino, anzi principalmente con nel mirino, il vero indagato di sempre: quel fu Silvio Berlusconi. A cui da una vita la magistratura dà la caccia. Per l’obbligatorietà dell’azione penale. Anche se Dell’Utri è stato appena assolto, “per non aver commesso il fatto”, “dalla cosiddetta trattativa Stato – mafia”. A dimostrazione che l’invocata, discendente, obbligatorietà dell’azione penale sembra essere stata, se non strumentalmente messa in atto, una sproposita decisione.