Pronti come non mai ad infiammare di nuovo il mondo

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Ricordo ancora quel mio ultimo sabato sera, che forse di sabato sera non aveva proprio niente. Era solo il 7 marzo e i più timorosi – ma col senno di poi, i più previdenti – avevano già deciso di chiudersi in casa. Le strade svuotate, l’aria fresca della sera, l’ultima cena al ristorante, l’ultima passeggiata per le mie strade di sempre con gli amici di sempre. Le ultime foto al bar, l’ultimo caffè, l’ultimo saluto, con uno speranzosissimo e incredulo “ci vediamo a scuola non appena la riaprono”. Chissà se forse nel cuore di qualcuno, anche solo per un istante, sia mai balenata per la mente l’idea che quel mercoledì 4 marzo sarebbe davvero stato l’ultimo giorno dell’anno scolastico. Niente ultima campanella, niente fotografie, niente feste, nessun saluto, nessun maggio di sudore e di fuoco, finite le interrogazioni, niente più compiti in classe, ma solo quel torvo portone chiuso e un’imperante paura pronta a divorarci e a stritolarci sin dalle viscere del nostro animo.

Forse nessuno avrebbe mai neanche lontanamente immaginato di potersi mai ritrovare in una situazione come questa, di certo nessuno ci avrebbe mai creduto o scommesso anche solo fino a due mesi fa.

Eppure ricordo ancora quei gelidi giorni di febbraio, quando l’emergenza era solo alle porte, ma non alle nostre, e pertanto non ancora degna di essere presa in considerazione dai più, non ancora abbastanza vicina a noi per spaventarci.

Avevo già smesso di scambiare il segno di pace in chiesa e di sedermi nella panca già occupata da altri. Avevo persino smesso di partecipare alla celebrazione della domenica mattina, preferendo quella del sabato pomeriggio, per avere a che fare con meno persone in assoluto. Avevo già smesso di prendere la metropolitana, di frequentare luoghi esageratamente piccoli e saturi di persone, di allontanarmi troppo da casa.

Un giorno scesi di casa con i guanti, con l’igienizzante e con una sciarpa avvolta fino al naso senza curarmi affatto degli innumerevoli “sei fuori di testa” e “cosa vuoi che sia” esternati a profusione da una maggioranza di inetti menefreghisti, elaboratori di mendaci amenità e di odiose facezie.

Tra chi continuava a prendersi gioco delle mie precauzioni “irrispettose” e delle mie previsioni “così lontane dalla realtà dei fatti”. Ma tra i peggiori, chi continuava a ripetere con un disarmante sarcasmo che tutto questo fosse solo paragonabile a una banalissima influenza, e anzi, che l’influenza facesse più morti e che dunque le mie preoccupazioni fossero non solo infondate, ma oltremodo ridicole. Fino a sopraggiungere al tripudio di ignoranza, degrado iperbolico e disagio scagliato alle stelle testimoniato dall’inverecondo slogan che recita – anzi, ormai, recitava – “Il vero virus è il razzismo.”

Abbiamo lasciato incautamente che la nostra vita fluisse come sempre, in mano alla noncuranza dei più e alla sottovalutazione di una condizione che da regionale è diventata in breve tempo nazionale e mondiale.

Ci siamo lasciati trascinare da deliri di onnipotenza, grandiosa intoccabilità, come se essere immuni fosse scontato e l’angoscia fosse una colpa. Ma non entrerò nel merito di scelte sbagliate, statistiche errate, decisioni tardive. Ognuna sa di avere le proprie colpe. Non sarò certamente io, dal mio insignificante pulpito, a sottolinearle.

É passato appena un mese dalla proclamazione dell’emergenza. Da quel 4 marzo in cui forse non avevo ancora pienamente compreso quanto le nostre vite sarebbero cambiate da qui a parecchi mesi, se non anni, e che ancora fatico pienamente a recepire. È passato un mese e più. Dallo sradicamento delle nostre abitudini e della lenta frantumazione di ogni rapporto fisico e sociale. Quaranta giorni permeati di una insanabile rassegnazione e intrisi di una nostalgia così potente da aver abbattuto in fretta ogni speranza. Appena trenta giorni che mi hanno incredibilmente segnato e insegnato.

Già, perché il vero insegnamento è solo quello che lascia un segno, specie se indelebile ed eterno come questo. Quando ho compreso, intorno al 10 marzo, che la mia vita sarebbe cambiata per sempre, insieme a quella di tutti. Che a separarmi dal mondo ci sarebbe stata una porta di casa chiusa e invalicabile e che solo scostando una tenda avrei potuto ancora assaporare il mondo. Quando ho compreso che andare a comprare un cornetto e bere il latte al bar sarebbe stata l’ultima cosa che mi sarebbe mai tornata indietro e che forse non avrei più visto fino alla maggiore età.

In nome di tutte quelle volte in cui ho dato per scontato il rumore dei miei passi sull’asfalto, le scie degli aerei su per quel cielo incantevole come un dipinto. In nome di tutte quelle volte in cui non ho ringraziato e amato abbastanza e sufficientemente la mia normalità, che anzi ho spesso così calpestato, detestato e cercato di allontanare. La normalità di essere ciò che sono, nel mio dolcissimo anonimato impregnato di torbida routine e appagante quotidianità, nel mio realizzarmi attraverso le trascurabili ma immense piccole gioie di ogni giorno, quella stessa normalità mai banale e mai fuori luogo, da sempre sovrana in tutti quei medesimi e ridondanti contesti quotidiani e che in nome della sua stessa essenza si tramuta in irresistibile dolcezza e vagheggiata memoria.

Forse ognuno di noi, chi in un modo chi in un altro, ne sta lentamente scoprendo lo sterminato valore. Persino nell’amore della propria terra. Già, quell’Italia che generalmente tutti sono abituati a calpestare, vilipendere, deridere ora si risveglia per urlare insieme ai suoi figli più forte che mai. Come se tutti, allo stesso momento, avessero finalmente compreso e amato sopra ogni altra cosa la propria italianità, come se tutti avessero capito dopo tanto tempo di essere figli del paese più bello del mondo.

Come se l’emergenza fosse stata responsabile a tal punto di un capovolgimento della nostra normalità, da far straripare a tutti il cuore di infiammato patriottismo e inorgoglito ardimento pregno di amor patrio. Come se tutti avessero imparato a testimoniare la magniloquente grandezza delle tradizioni italiche e della nostra inestinguibile e valorosa fiamma.

A volte penso che quest’epidemia abbia coinvolto una tale dose di sinergia nazionale da riuscire a risvegliare il coraggio di ognuno dei figli di questa patria che sta estirpando il male e che lotta ogni giorno per riportare ogni cosa alla tanto sospirata e dolce normalità.

Vorrei poter descrivere quanto mi manchi il profumo del sole. Forse è una di quelle immagini che nessuno sarebbe in grado di descrivere, di raccontare a parole, di esternare e di trasmettere al prossimo, perché si tratta con ogni certezza di una di quelle sensazioni da poter esclusivamente custodire dentro di sé, come sigillo del dono più prezioso di cui la Natura abbia mai deciso di renderci partecipi.

Dunque chiedo a ognuno di fare un lungo passo indietro, per poi voltarsi a rivivere tutti quegli istanti in cui non abbiamo pensato al sapore del sole, all’esplodere del cielo e alla lussureggiante potenza della primavera. A tutti quegli istanti in cui non ci siamo fermati almeno per quaranta secondi a contemplare un albero in fiore. A tutti quei giorni in cui, rapiti dagli impegni, avvinti dai problemi e dalle circostanze, non abbiamo detto grazie. A tutti quei momenti in cui ci siamo sentiti infinitamente grandi, inconsapevoli che qualcosa di infinitamente piccolo avrebbe potuto spezzarci e spazzarci via per sempre. Per tutte quelle volte in cui abbiamo protestato per le più assurde piccolezze, per gli screzi fuori luogo, per la scuola ed il lavoro.

Per quando abbiamo urlato senza prima respirare, e per tutte le occasioni lasciate sempre andare.
Per il disordine lasciato in sospeso nella nostra vita, per ogni questione irrisolta, che rispetto a tutto ciò, apparirà sempre risanata.
Per ogni problema ingigantito fino all’esasperazione, per ogni litigio che ci ha sempre un po’ lacerato il cuore. Per ogni soffio di vento che non abbiamo mai apprezzato e ogni goccia di sole da cui ci siamo allontanati.
Per tutte quelle volte in cui abbiamo messo da parte la salute, non considerandola come unico e assoluto valore primario delle nostre esistenze, dinanzi alla cui perdita tutto crolla, tutto precipita, ogni altra cosa si frantuma.
Per tutte quelle volte in cui siamo sentiti potenti alberi secolari, pronti a toccare il cielo, quando siamo invece soltanto esili e caduche foglioline in bilico tra un ramo ancor più esile e l’abisso dell’ignoto e che il vento spezzerà senza preavviso alcuno.
Per tutte quelle volte in cui abbiamo maledetto l’isolamento ed egoisticamente pensato solo a tutte le sciocchezze che costellavano la nostra vita là fuori rendendola fallacemente appagante.
Per tutte quelle occasioni in cui abbiamo lamentato per ore l’insopportabile insofferenza provocata dalla forzata reclusione domestica, mentre c’è chi non sa se riuscirà mai a tornare a casa e riabbracciare i propri cari.

Quando ci siamo disperati perché stavamo “solo guardando un film nel letto e mangiando tutto quello di cui avevamo voglia acquistato senza alcun problema al supermercato” mentre a pochi chilometri da noi c’è chi si nutre solo di ossigeno e dorme in un letto che sarà probabilmente quello della sua morte.

Quando abbiamo condannato la solitudine “dello stare solo in famiglia” mentre c’è chi quella famiglia non la rivedrà mai più, addormentandosi in eterno col solo sfocato ricordo di un anestesista travestito da fantasma e confusamente distorto in angelo della morte.
Quando ci siamo logorati per la difficoltà abissale della nostra condizione di barricati in casa, mentre lì fuori c’è chi si alza ogni mattina, mettendo a repentaglio la propria vita per andare a salvarne dieci, cento e poi mille.
Quando siamo contriti perché “affaticati dallo stare sempre in casa” quando lì fuori c’è chi è costretto a restarci e che anche questo mese non potrà assicurare due pasti al giorno ai propri figli.
Quando affermate di “star compiendo un enorme sacrificio psicologico” sappiate dunque che ci sono aziende che falliranno, negozi che scompariranno e vite che si spegneranno.

Pensiamo allora a chi si alza ogni giorno per garantirci di respirare quell’aria così preziosa e così invisibile al punto tale che preferiamo ignorare di possedere.

Affinché allora, questa solitudine ci faccia riscoprire in noi stessi la nostra più preziosa e speciale compagnia.

Per ritrovare in noi e nei nostri affetti domestici una risorsa sicura, uno stimolo costante, una nuova e prorompente forza che ci risollevi e che come non mai ci insegni a combattere e a reagire.

Affinché, una volta per tutte, impariamo ad apprezzare fino in fondo l’inestimabile valore della nostra vita. A svuotarla da tutte quelle fatue amenità, da tutte quelle inutili e ricorrenti frivolezze. Ho imparato in questi quaranta giorni a colmarla di una luce così nuova che mai avrei pensato potesse pervadermi.

La luce di una nuova alba che ha rischiarato i più autentici valori in cui valga davvero la pena credere. Dal contemplare lo specchio azzurro del mare fondersi col cielo in un abbraccio infinitamente straripante di poesia, fino all’abbacinante bagliore delle stelle stavolta come non mai irraggiungibili e perfette.

Tanti giorni fatti di incolmabili mancanze, distanze che non smettono di apparirmi infinite. Ricordi che mi sfumano nella mente ormai così remoti, evanescenti, impalpabili, dall’ultima interrogazione, all’ultimo abbraccio, dall’ultimo gelato, fino all’ultima corsa al vagone della metto, dall’ultima festa all’ultima pizza, finanche all’ultimo gradino sceso per entrare in classe. Forse a tutti allora manca un po’ l’aria. Quella irrespirabile che mastichiamo sotto una mascherina stantia che ci si attorciglia su per le orecchie, che ci avvolge il volto e che ci oscura il mondo intero, l’aria che ci è stata sottratta e che di giorno in giorno non fa altro che rarefarsi sempre più.

Forse ci manca guardarci un po’ tutti negli occhi. Ritornare ad affollare le strade, senza più scansarsi e abbassare lo sguardo quando qualcuno ci viene incontro. Ritornare a popolare le piazze, i parchi, le chiese, gli stadi, i ristoranti, le scuole e le università. Deboli oggi ma straordinari domani e pronti come non mai ad infiammare di nuovo il mondo.