Difesa e Sovranità

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Quando “le chiavi di casa” non sono metaforiche ma effettivamente lo strumento per chiudere o aprire i confini della propria Patria famigliare, proteggere la propria dimora come il luogo dove tenere al sicuro i propri cari e le proprie cose, ebbene esse ci ricordano che il concetto stesso del “disporre di sé”, e cioè l’esercizio di una sovranità individuale, debba prevedere strumenti e talvolta contromisure per proteggersi dalla aggressione di terzi.

 

Viviamo in un mondo libero, in un ordinamento che mette al centro e tutela l’individuo e ogni sua espressione, tuttavia se non si riesce a garantirgli la dovuta sicurezza, egli non potrà esercitare pienamente la sua libertà. Siamo liberi di farlo, ma spesso preferiamo rinunciare ad una passeggiata notturna in un parco, siamo abituati a badare bene dove parcheggiare l’auto in periferia, spesso a patire ansia e frustrazione nell’adoperare mezzi pubblici per paura di borseggi, qualche volta a rimandare un prelievo al bancomat laddove esso debba essere effettuato di notte, a raccomandare prudenza ai nostri congiunti, ad utilizzare impianti di allarme ed antifurti. Queste, come tante altre cautele, sono talmente ordinarie da entrare nel nostro vivere comune, e addirittura hanno acquisito un’aurea positiva, diventando buonsenso, ponderazione, saggezza; e però, tuttavia, ognuna di queste condotte, come mille altre, in realtà rappresentano piccoli o grandi limiti alla nostra libertà. Le cronache quotidiane ci confermano che le nostre città non sono luoghi sicuri, finanche in casa propria si rischia di temere una intrusione violenta. Siamo quindi veramente liberi? Disponiamo di una autentica sovranità di disporre di noi stessi?

Tanta filosofia e tanto pensiero giuridico hanno analizzato il tema cruciale del rapporto fra libertà e sicurezza, in quanto la seconda, necessaria per garantire la prima, se adopera misure blande non raggiunge il suo scopo mentre, se diviene eccessiva (oppressiva), si trasforma essa stessa un limite alla libertà individuale. Tocca alla politica individuare la giusta dose di sicurezza da somministrare al contesto civile, di modo che il vivere ordinato garantisca a tutti il massimo della libertà, senza che essa comporti nocumento agli altri individui o in genere alla collettività. Se i vari ordinamenti giuridici, da millenni, hanno offerto una risposta più o meno funzionale per superare la brutale “legge del più forte” è invece materia del diritto vivente capire entro quali limiti contingentare la “forza della legge”. Un carcere è, ad esempio, un luogo sicuro, ma al costo di privare gli individui della loro libertà, della loro sovranità di disporre di sé.

Il tema sarebbe infinito, sia nella teoria sia nell’applicazione peculiare, ma esso è il paradigma dentro il quale affrontare la questione della “legittima difesa” o, con una definizione che ci piace di più, del “diritto all’autotutela”. Perché se è vero come è vero che i crimini saranno sempre commessi, anche nei sistemi più rigorosi e repressivi, il giudizio giuridico della condotta di chi si difende da essi è questione dirimente, da affrontare non sotto la spinta emotiva dei fatti di cronaca ma in ragione di una analisi che abbia una visione complessiva dell’ordinamento, delle sue Istituzioni, e del ruolo stesso dell’uomo e del cittadino.

Più parti assumono che sia esclusivo diritto dello Stato l’utilizzo della forza, e negano all’individuo la legittimità giuridica di qualsivoglia sua reazione che non sia perfettamente e specularmente proporzionata alla aggressione subita; si tratta di una interpretazione eccessivamente restrittiva dell’art.52 del codice penale (nella sua prima stesura, peraltro) che eziologicamente si basa sul convincimento –errato– che chi subisca una condotta violenta altrui “non abbia il diritto/libertà di difendersi” tanto è vero che lo stesso art.52 non riconosce questo diritto ma si limita a prevedere una “condizione di non punibilità” per chi si sia difeso, bilanciando bene la forza reagente entro i limiti della proporzionalità, pena l’aver “contrattaccato” e quindi aver agito oltre il perimetro della scriminante e, invece, dentro le forme di altre condotte illecite tipizzate.

Il nostro concetto di libertà, o meglio ancora, di “sovranità di disporre della propria libertà”, anche individuale, ci pone diversamente al cospetto di una altrui condotta violenta e criminosa, che metta in pericolo interessi giuridicamente e costituzionalmente garantiti; quando c’è già un soggetto che abbia esercitato la sua forza per perpetuare un reato, pretendere che la vittima subisca passivamente tale violenza pur di non condividere con lo Stato l’impiego della forza reagente è, oggettivamente, non conforme a nessuna logica; se è già accaduta l’aggressione vuol dire che la “protezione” dello Stato non ha funzionato, rendere le vittime inermi anche attraverso norme restrittive sulla difesa comporta, irrimediabilmente, un doppio fallimento del Sistema: non è riuscito a prevenire la aggressione, ed ha obbligato alla impotenza chi quella aggressione abbia subito.

Il difetto interpretativo, evidentemente, è a monte: ritenere che sia solo lo Stato detentore di certi diritti sovrani. Quando l’intero Ordinamento, attraverso le sue articolazioni istituzionali preposte alla prevenzione e alla repressione del crimine, non sia stato in grado di impedire un accadimento configurabile come una condotta delittuosa aggressiva contro la persona (od anche contro il patrimonio), l’intervento reagente della vittima, salvo macroscopiche asimmetrie, a nostro giudizio, invece, deve considerarsi lecito e non solo “non punibile”.

È una vera questione di sovranità; il reagente, agendo in sostituzione di chi avrebbe dovuto prevenire l’accadimento, dovrebbe guadagnarsi una medaglia al valore, mentre è spesso vessato da persecuzioni giudiziarie spesso finanche più gravose di quelle riservate al suo aggressore. Ciò accade perché al cittadino non viene riconosciuta piena legittimazione all’utilizzo della forza, neanche se quella forza si sia resa necessaria, per difendersi da un pericolo imminente, attuale ed ingiusto e per scongiurare un “possibile” maggiore nocumento alla propria o altrui integrità fisica e patrimoniale. Non è agevole, infatti, prevedere (e meno che mai può farlo chi si trovi a vivere l’esperienza angosciante e concitata di una aggressione) il grado della violenza altrui e fino a dove essa possa spingersi, pertanto la pretesa della assoluta specularità della reazione è fuorviante, erronea, ingiusta: è una privazione di sovranità individuale. Respingere la forza con la forza ci appare un principio di diritto naturale che trova fatica a trovare legittimità nel diritto positivo, nonostante ed evidentemente non vi possa essere altra modalità respingente. Una rielaborazione dell’art.52 cp si rende necessaria, al fine di stabilire che il cittadino abbia “il diritto di difendersi”, quello che ci piace definire il diritto all’autotutela. Nel suo esercizio viene riconosciuto dall’Ordinamento non solo una libertà/sovranità all’individuo, ma gli si affida, ovviamente dentro il perimetro del fatto peculiare, un ruolo di pubblico interesse che egli potrà o meno espletare, come chi decide di salvare altri da un incendio o dall’annegamento. Rischiando pure di essere incompresi, occorre superare il convincimento consolidato della necessaria proporzionalità, anche perché si tratta di una mera astrazione concettuale. Nessuno può sapere fin dove può spingersi la violenza del proprio aggressore, pertanto l’unico interesse di chi subisca l’altrui condotta violenta è “neutralizzare” la forza avversaria, sia quella già esercitata sia quella che, potenzialmente, potrà essere esercitata un semplice istante dopo. E alla forza, si può rispondere, spesso, solo con la forza. Anzi, con una forza pari o maggiore, non “minore” come vorrebbero certe interpretazioni, cosiddette “buoniste”.

Naturalmente il tema della autodifesa non può non sottintendere l’utilizzo di oggetti, propriamente o impropriamente all’uopo adoperati. La pretesa della proporzionalità ha comportato pronunce di condanna per chi avesse adoperato, per difendersi, oggetti “più letali” di quelli usati dal proprio aggressore. Sembra veramente una forzatura quella di paragonare la forza lesiva degli oggetti, per loro natura inanimati. Può considerarsi più o meno letale un oggetto contundente di uno affilato? Può assumersi come mezzo più dannoso per la salute umana un attrezzo da lavoro (martello, cacciavite, chiave inglese, ecc) piuttosto che un oggetto da cucina (bottiglia, mattarello, spiedo, ecc)? È evidente che andrebbe verificato, caso per caso, l’utilizzo (e l’utilizzatore) di questi oggetti. Il tema dell’accesso alle armi da fuoco, sia per utilizzo sportivo/venatorio che per esigenze di difesa personale, diventa a questo punto cruciale. E afferisce al tema della libertà e della sovranità individuale.

Un’arma da fuoco, oltre il perimetro sportivo e venatorio, in realtà ha lo scopo di livellare le disparità fisiche in gioco in una aggressione. Anche una donna di esile corporatura o un anziano dalla malferma salute possono difendersi da un gruppo di giovani ed aitanti aggressori, se dispongono di un’arma da fuoco; altrimenti sono destinati a soccombere, a subire violenza, a patire indifesi l’azione criminale altrui. E il ventaglio d’offerta è ampio: stupro, sequestro di persona, rapina, lesioni, omicidio. L’arma, a questo punto, diviene l’unico strumento per respingere la forza con la forza. Letta in questo modo, probabilmente, si ribalta la interpretazione ordinaria e mediatica per la quale “le armi uccidono” e si scopre, in alcuni casi con meraviglia, che “un’arma salva la vita”. In realtà un’arma, come qualsiasi oggetto inanimato, non ha potere né di uccidere né di salvare, al pari di una penna o di un libro. È sempre il suo utilizzo ed il suo utilizzatore che fanno la differenza. Ed assunto che, nel mondo criminale, vi sia anche una certa predisposizione ad usare armi da fuoco o da taglio, non si vede perché limitare sempre più, per gli onesti, l’accesso agli stessi strumenti. Torna sempre il concetto di libertà di disporre di sé, di sovranità individuale.

Lo Stato che ritiene prudente (e in qualche caso obbligatorio) detenere un estintore, nonostante la presenza dei Vigili del Fuoco, o una cassetta del pronto soccorso, nonostante la presenza delle ambulanze, è invece molto diffidente nel concedere ai propri cittadini (sudditi?) l’accesso alle armi, ritenendo che le volanti di Polizia e Carabinieri siano in questo caso sufficienti. E non perché le armi siano “semplicemente” pericolose, perché sono pericolosi anche gli acidi che si comprano liberamente al supermercato, gli attrezzi come coltelli, falci, levachiodi (piede di porco) e macheti che si acquistano senza formalità in ferramenta, i veleni che si usano in agricoltura, gli articoli sportivi come mazze da baseball o da golf, le stesse automobili o i furgoni che ormai abbiamo imparato, tristemente, a guardare con paura. Non è una questione di semplice pericolosità, altrimenti occorrerebbero leggi per regolamentare infiniti oggetti il cui utilizzo possa essere lesivo o fatale, è proprio una questione di perimetro della libertà individuale, della concessione ai singoli individui di un pezzo di sovranità.

Non è un caso che in presenza di dittature, regimi autoritari o occupazioni militari, si trovino sempre prescrizioni normative volte a limitare, se non ad estinguere, il diritto dei cittadini ad avere armi. Dichiarare tutte le armi illegali è tipico di sistemi giuridici che temono la ribellione degli amministrati, infatti tali provvedimenti non fanno “sparire” le armi (anche le droghe sono vietate, ma non per questo non esistono) ma sottopongono ad una restrizione della propria libertà coloro i quali non vogliono trasgredire la legge, che di regola sono la maggior parte. È quindi una coercizione forzata (per paura della pena), che funziona solo dentro i cancelli della legalità. I cittadini onesti non avranno armi, quelli disonesti sì. I primi, quindi, saranno vittima più indifesa dei secondi perché sono già vittime di un regime autoritario che nega loro un pezzo di libertà/sovranità. Appare per certi versi inquietante che le direttive europee vadano in questa direzione. Uno Stato che voglia detenere il monopolio della forza, sceglie di avere anche il monopolio delle armi. Ciò non può avere risvolti pericolosi? Siamo tutti così fiduciosi nei confronti dello Stato, e dei suoi governanti pro-tempore, da consegnarli tanta nostra libertà e sovranità? Con una iperbole, non c’è dubbio, dovremmo ricordare che i campi di concentramento altro non fossero che strutture governative, affidate a personale ministeriale, in un sistema nel quale lo Stato era l’unico detentore delle armi, mentre al cittadino che usufruisse della struttura era offerto una specie di pigiama a righe. La disponibilità di accesso alle armi, nelle società del passato, era un discrimine essenziale fra l’uomo libero e lo schiavo.

Paradossalmente, nei liberi sistemi democratici occidentali, l’utilizzo e la detenzione delle armi viene considerato accettabile solo in determinati segmenti del vivere civile, ed invece viene interpretato come inopportuno e pericolosissimo per altri. È infatti pacifico che, oltre le forze dell’ordine, siano armati i vigilantes delle banche o le scorte di politici e VIP, mentre il comune sentire è molto scettico se le stesse armi siano in dotazione al buon padre di famiglia. Per la sicurezza di gioiellerie, palazzi governativi, centri commerciali ed eventi sportivi si ricorre normalmente e senza alcun assillo all’impiego di personale armato, mentre per la sicurezza della propria incolumità il cittadino dovrebbe limitarsi a telefonare al pronto intervento e poi attendere disperatamente l’intervento di…… uomini armati! Ciò accade anche a seguito di campagne comunicative che hanno convinto pezzi importanti della pubblica opinione che il cittadino non sia “degno” della responsabilità di avere un’arma da fuoco. Si tratta di una vera manipolazione del pensiero, sorretta da una fuorviante e fittizia prudenza, che alla lunga ha determinato adesione diffusa al principio, pericoloso e illiberale, che lo Stato possa non concedere, in via preventiva, al cittadino l’esercizio di una sua libertà “per paura che ne abusi” o perché lo ritiene poco maturo. In sostanza la negazione più totalizzante e sistemica dell’esistenza stessa di una sovranità individuale.

Un mondo senza armi non sarebbe, come qualcuno crede, una sorta di girotondo gioviale fra arcobaleni e nuvole di zucchero, dove piccoli unicorni saltellano in mezzo a uomini di tutte le etnie che si tengono per mano cantando canzoncine. Sarebbe invece un mondo senza diritto e senza società organizzate, dove il più forte fisicamente domina indisturbato sul più debole, dove le donne devono affidare la propria incolumità ai loro uomini, dove bande organizzate possono sovvertire ogni regola del vivere civile; non avrebbe più senso il concetto stesso delle Patrie e delle nazioni se prive di adeguata difesa di polizia e militare. Ed infatti, fra l’altro, è verosimile ritenere che il deterrente dell’impiego di armi nucleari da entrambe le parti, abbia scongiurato che la guerra fredda sfociasse in un conflitto mondiale disastroso. Se quindi risulta pacifico, assolutamente coerente con la indipendenza e la sovranità delle Nazioni, che Stato disponga per sé di un adeguato approvvigionamento di armi per risolvere (e anche scongiurare) ogni aggressione interna ed esterna, per far fronte ad ogni minaccia o aggressione, e per tutelare i propri confini e la propria gente, non è chiaro perché, nel piccolo, tale diritto (tale sovranità) non spetti anche al cittadino per le stesse identiche ragioni, cioè difendere sé stesso, la propria casa e la propria famiglia, da pericoli e da aggressioni. Che si tratti di un lupo affamato o di un criminale violento, chi si trovi ad avere tale presenza al cospetto della sua porta di casa, deve avere a disposizione la sovranità di proteggersi. E questa sovranità, così interpretata, deve considerarsi un diritto, un vero e proprio diritto umano.

In conclusione, il principio latino “vim vi repellere licet” sembra essere ancora la migliore sintesi possibile in materia di difesa. In esso non vi è traccia della “condizione di non punibilità” prevista dal nostro codice, ma una definizione di assoluta liceità della condotta di chi si difende. E cioè del suo diritto ad agire nell’interesse della propria incolumità, oltre gli schemi eccessivamente rigidi della pretesa assoluta specularità della proporzionalità. Necessitano quindi interventi normativi puntuali, efficienti, pertinenti e specifici per delineare, ed anche delimitare, tale diritto, come anche nuove disposizioni di legge che regolino l’accesso agli strumenti (armi) per esercitarlo e senza i quali, nella maggior parte dei casi sarebbe impossibile difendersi. È una questione vera e autentica di sovranità.

 

Ettore De Conciliis