Giacomo Rizzolatti: dai neuroni specchio all’empatia, così ci rapportiamo con gli altri

0

L’arte e la bellezza sono “dispositivi” che ampliano lo sguardo, accendono curiosità e trasformano l’attenzione in azione. Quando una comunità le vive davvero, nasce un’energia pratica e creativa capace di riorientare i processi, prodotti e relazioni: si sperimentano forme, si migliorano servizi, si inventano sentieri inediti.

Vedere, ascoltare, ricordare, inferire, ipotizzare quanto accade sullo schermo, in una sala di concerto, in un museo oppure in una galleria d’Arte consente una partecipazione attiva che sicuramente dipende dai modelli interpretativi che il fruitore, il visitatore, lo spettatore è in grado di maneggiare e può produrre eventi di tipo catartico come di semplice intrattenimento.

A poche settimane dall’assegnazione al professor Giacomo Rizzolatti del Premio Internazionale per la Biologia a Tokyo istituito dalla Japan Society for the Promotion of Science, lo abbiamo incontrato per una riflessione sugli aspetti neurofisiologici legati alla sua esperienza scientifica e sugli impatti che questa può avere per affrontare le sfide quotidiane che la società attuale ci presenta.

Giacomo Rizzolatti

Negli anni ’90, Giacomo Rizzolatti e i suoi colleghi scoprirono che alcuni neuroni nell’area F5 del cervello dei macachi si attivano non solo quando la scimmia afferra un oggetto, ma anche quando osserva un’altra scimmia afferrare lo stesso oggetto. Osservarono anche neuroni che rispondevano in modo simile alle azioni di manipolazione e posizionamento di un oggetto. Chiamarono questi neuroni “neuroni specchio” e il meccanismo cerebrale responsabile “meccanismo specchio”. Inoltre, osservando che i neuroni specchio sono coinvolti nella percezione dei comportamenti altrui e che l’area del cervello in cui sono stati trovati i neuroni specchio è vicina all’area di Broca, nell’area motoria del linguaggio, proposero che i neuroni fossero coinvolti anche nella generazione del linguaggio. Le implicazioni pratiche di questa scoperta sono state notevoli, e vanno dalle terapie di cura agli aspetti, sociali, relazionali e comunicativi di ambiti legati alla vita di tutti i giorni.

Ha ricevuto nel novembre 2017 il premio regionale  “Lombardia è Ricerca” in memoria di Umberto Veronesi e consegnato nella “Giornata per la Ricerca” al Teatro alla Scala.

Cos’è l’empatia ? Se ne parla tanto e in contesti sempre più vari, ma spesso viene confusa con un generico essere buoni, in realtà è molto di più. Vero?

È importante definire il concetto di empatia. Questo eliminerà subito l’equivoco molto diffuso che empatia significhi essere buoni. Non è così. Nelle scienze cognitive la definizione di empatia è la seguente “L’empatia è la capacità di cogliere e comprendere l’esperienza soggettiva dell’altro, cercando di calarsi nei suoi panni, guardando le cose dal suo punto di vista”.

Le cronache ci parlano sempre più spesso di comportamenti che vanno nella direzione opposta dell’empatia (intesa come comprensione reciproca), soprattutto da parte dei giovani. Si ride di chi soffre, anziché aiutare. Sembra che la violenza sia diventata una cosa normalizzata. Perché i modelli negativi hanno un così grande impatto emulativo?

Non è detto che chi ride di chi soffre non sia empatico. Uno studio americano, fatto a Chicago, mostra che gli ergastolani colpevoli di delitti sadici sono molto empatici. Altri delinquenti non lo sono. L’empatia seguita da atti positivi si chiama compassione. La mancanza di compassione può essere dovuta alla convinzione che l’altro non è come te. Questa è una attitudine molto pericolosa. L’esempio paradigmatico è quello di Eichmann, il gerarca nazista. I test psicologi, fatti su Eichmann durante il suo processo in Israele, dimostrarono che Eichmann era buono, amava i bambini, la famiglia gli animali. Eppure Eichmann e i suoi collaboratori diressero la deportazione nei centri di sterminio, di circa 440.000 ebrei ungheresi. Come mai? La risposta di Eichmann fu che gli ebrei erano degli “untermenschen”, esseri quindi subumani, e quindi la loro uccisione non era diversa di quella che viene fatta ogni giorno degli animali di allevamento. È un esempio della pericolosità, anche attuale, di certe ideologie.

Come va usata l’empatia nel rapporto genitori-figli?

L’empatia positiva si sviluppa nei primi anni di vita. Fondamentale è il rapporto con la mamma. Se la mamma preferisce parlare al telefonino invece che con il bambino, il bambino non crescerà empatico. Il ruolo di altre persone incluso il padre non è così critico per quanto riguarda lo sviluppo dell’empatia. Il problema reale di base non quindi sono gli adolescenti indifferenti al prossimo, ma le loro madri.

E nei contesti lavorativi? La sensazione è che sia ancora molto diffusa la convinzione da parte dei manager che l’empatia non serva, perché non porta a risultati concreti e misurabili e che quindi sia quasi un ostacolo per i loro avanzamenti di carriera. Sembra un discorso un po’ cinico ma è assolutamente reale. Lei cosa ne pensa?

Purtroppo è cosi. Molti manager, capiufficio, ed altre persone con responsabilità su altri, sono convinti che essere burberi, distaccati e poco sensibili alle esigenze dei loro dipendenti sia il metodo ideale per stabilire la loro leadership. In realtà questo atteggiamento porta a conflittualità, disinteresse da parte dei dipendenti e, non facilita il lavoro di gruppo. È vero proprio il contrario: essere empatici coi propri dipendenti è la strategia migliore per un lavoro di squadra. È l’unica strategia vincente.

[Silverio Guanti è Presidente di REA Health]

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui