Ironico, vulcanico, provocatore, straordinario, misterioso, filosofo. Folle. Laddove un “elogio alla follia“ diviene indice di pensiero divergente, genialità. Nasceva ad Ancona nel 1947 e moriva a Roma nel 1998, Gino De Dominicis, il più controverso, discusso, imprevedibile tra gli artisti del Novecento. Libero. Concettuale senza essere concettuale, sarà lui stesso a chiamarsi fuori da ogni stile e corrente, irrequieto maestro dell’ossimoro capace di sorprendere persino se stesso. Affascinato, se non ossessionato, dal tema della immortalità, oggi sono le sue opere, come testimoni immortali della sua espressione d’arte, a raccontare di lui alla Galleria Puccini di Ancona. Un omaggio nella sua città di origine nel 25esimo della scomparsa con la mostra “Intorno a Gino De Dominicis”. Un progetto alimentato dallo sguardo critico di Arianna Trifogli, di Paolo Benvenuti e di Stefano Tonti, che già da tempo si concentra sull’opera di De Dominicis con l’auspicio di gettare le basi per un itinerario conoscitivo del grande Maestro più articolato nel tempo. Uno sguardo, insieme a quello di Federica Lazzarini e Andrea Bruciati, che provvede a stimolare una riflessione sul lavoro di un protagonista della storia dell’arte mettendo in dialogo De Dominicis con una selezione delle opere di artisti come Giorgio De Chirico, Claudio Cintoli, Scipione, Alberto Savinio, Leonor Fini, Paolo Gioli.
Ed è proprio nel confronto con altri capolavori che la mostra induce ad esplorare aspetti dell’arte contemporanea nel contesto, come sottolinea Stefano Tonti nel catalogo che accompagna la mostra, di “movimenti intellettuali e di conversione di linguaggi, con De Dominicis in prima linea, che dopo gli anni Ottanta si affrancano, a volte si contrappongono, altre ancora recuperano alcuni dei valori della pittura figurativa e del disegno”. Sarà un secondo testo in catalogo, con la firma di Federica Lazzarini, a rimarcare questo ultimo aspetto: “il disegno, che nel Novecento è come una linfa…..si palesa qui come pratica di nuova definizione”, e il disegno si configura come espressione e strumento di una tecnica che si riconferma e si rivela attraverso la figurazione.
Così il percorso espositivo, che prevede l’alternanza di opere diverse, mantenendo invariato il corpus di Gino De Dominicis, si sofferma sugli stilemi di Claudio Cintoli con “I Cucchiai del firmamento,” una acquaforte con “Gli archeologi” di Giorgio De Chirico, una “Dea in riva al mare” di Alberto Savinio che ci presenta una figura femminile con la testa di una fiera.
E pare una sentinella la figura di Johanna B nel ritratto dalle linee essenziali di De Dominicis per una matita e carboncino su tavola, poi l’evanescenza di un “Ritratto” degli anni Novanta che rimanda alla tematica dell’invisibile, dell’inafferrabile in cui protagonisti sono i baffi che caratterizzano l’immagine dell’irriverente artista anconetano per una sorta di emulazione di un altro grande, irriverente artista, Salvador Dali. E c’è sempre qualcosa di irraggiungibile, di insondabile nell’opera d’arte, (in qualsiasi opera d’arte) che appartiene alla sfera del Noumeno. La mostra propone “Uno Studio per nudo”, matita e carboncino su carta, singolare figura di donna a carponi, una fotografia che restituisce la traslazione del volto di De Dominicis, “Un bel bagno di Nietta e Paolo in Acquaceleste”, laddove il titolo, come spesso accade, non è altro che illusorietà, apparentemente scevra di significato, tesa a racchiudere il senso e l’azione che l’artista sceglie di affidare all’opera. Un aspetto, questo che rimanda alla posizione schopenhauriana per cui l’intero mondo è Rappresentazione, quando il soggetto non abita solo la superficie del visibile, bensì anche la dimensione di quella forza cieca e irresistibile che Schopenhnauer chiama Volontà.
Ed è allora che la Volontà diventa Rappresentazione: e il corpo non è altro che la Volontà divenuta visibile. “Opera ubiqua”, un’opera del 1987 che la mostra presenta, ci consegna una riflessione, cara a De Dominicis, sul concetto di ubiquità, tematica che lo ha spinto ad eseguire diversi esemplari di volti in misure diverse, quando un luogo fisico per l’artista diventa un luogo “altro”. L’ubiquità si contrappone alla nozione di spazio come luogo in cui si pensano le cose e si allontana dalla concezione di un tempo lineare che volge in una sola direzione, per accettare il tempo della ripetizione, come una sorta di “eterno ritorno”, che sconfigge l’idea della morte. “Io penso che le cose non esistano”, scriverà De Dominicis, “per esistere veramente le cose dovrebbero essere immortali, eterne”, mentre sostiene la posizione per cui tutto ciò che è dotato di movimento nello spazio non può permanere nel tempo, solo l’immobilità dell’opera d’arte garantisce una durata senza limite. Così, sarà la mostra stessa, che chiuderà i battenti il 4 novembre 2023, ad assumersi, implicitamente, il compito di mantenere vivo il mito, di testimoniare l’unicità della complessa, forse irraggiungibile, espressione artistica di Dominicis e la sua unicità di “pensare“ l’arte (e la vita) nella sua dimensione in-corruttibile.