Giorgio Albertazzi, i cento anni del dandy del teatro italiano

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Giorgio Albertazzi, attore, ieri un secolo fa. Il Novecento con i suoi dandysmi, il culto della Bellezza, della parola oggi così svilita e decaduta. Quando recitava cadeva in uno stato di grazia, un lavoro su di sé che poteva apparire pigro, rilassato ma covava sotto la cenere un daimon, un folletto vispo vigile, dispettoso e combattuto. Era un martire del lusso, faceva dell’ironia quando sfoggiava il suo fazzoletto da taschino viola alle prime: una disinvoltura provocante in barba a tutte le convenzioni scaramantiche dello spettacolo che vedono il colore viola come qualcosa che porta jella. È il colore dei paramenti pasquali, quando per tradizione agli attori era vietato recitare. Giorgio e la sua ribellione perpetua, il suo rifiuto nel seguire il gregge, la moda, anche quella culturale. E come sosteneva Oscar Wilde: “Sento che devo essere sempre nel torto”. Lui, repubblichino con Junio Valerio Borghese a Salò perché da ragazzo inseguiva una biondina bellissima e austriaca e poi stregato dalle letture del Comandante Emilio Salgari, quello di Sandokan, Janez, i pirati della Malesia. Imprigionato a Coltano dove finivano tutti gli ex fascisti e pure il poeta Ezra Pound, Giorgio della guerra non voleva più parlare. Albertazzi fuori palco centellinava perle di seduzione: “Ogni lasciata è persa è vero, ma a volte è una fortuna!”. Oppure: “La migliore orgia si fa in due e con chi sia ama veramente”. Lo si ricorda novantenne a Ponte Vecchio a Firenze seduto con una giacca gialla canarino, il pantalone celeste e un cappello Panama a lunghe tese, gli occhiali da sole fumè; la frivolezza del dettaglio e quella facilità del verso poetico da fine dicitore toscano: Quant’è bella giovinezza-che si fugge tuttavia- chi vuol esser lieto sia, del doman, non v’è certezza. Se Cocteau sosteneva che “la moda muore giovane”, il dandy Albertazzi durerà almeno altri cent’anni.

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