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Ve lo ricordate, alla scuola primaria, quando per farci ricordare la forma del nostro Paese ci dicevano che assomigliava a un grande stivale? Un po’ divertiti, giustamente, finivamo per crederci; salvo poi domandarci: lo stivale di chi? Con il passare degli anni, crescendo, abbiamo anche pensato all’Italia come a uno stivale dimenticato; dimenticando che, questo vituperato stivale, galleggia da tempo immemorabile su quell’infinita ricchezza che i romani chiamavano Mare Nostrum. Il tempo, tra un secolo e l’altro, ha saputo dare valore diverso a questo patrimonio che è parte della vita di tutti gli uomini che ne abitano la fascia costiera. Un valore strategico in ambito militare, un altro ancora, grazie alla capacità di produrre ricchezza, in ambito turistico e ambientale, ancora per la sua pescosità, per la capacità di essere una sorta di gigantesco molo, a forma di stivale appunto, su cui vengono smaltiti i traffici da e per l’Europa di tutti i continenti. In passato da qui partivano e arrivavano sale, spezie, sete, oro e tanta altra merce ancora. Una ricchezza, quella del traffico marittimo, spesso sottovalutata, altre volte vituperata ma, grazie allo sviluppo di una vera e propria economia del mare, sostenuta dalla creazione e affinazione di un sistema complesso, chiamato logistica intermodale, capace di dimostrare concretamente tutta la sua potenzialità. Con l’avvio, ormai cinquanta anni fa, della containerrizzazione di porti, naviglio e trasporto su terra (rotaia e gomma), si è manifestata una crescita costante e immaginabile, sostenuta e, al contempo a sostegno, della globalizzazione economica. Un processo inarrestabile se non per colpa, per pochi un merito, di un altro avvenimento globalizzato come la pandemia. Sono state alcune scelte, compiute in epoca recente a rendere possibile tutto questo. Una per tutte, quella di giungere alla liberalizzazione dei porti, partita proprio da quello della Spezia, dove le banchine, per prime in Italia, sono state sottratte a una sorta di feudalesimo moderno. Fu il Porto di Genova a subirne le conseguenze perdendo la sfida della competitività, pagando pegno alle compagnie portuali, retaggio di un passato che non poteva continuare a esistere, rendendo inutile ogni vantaggio concorrenziale in termini di strategicità territoriale. Come ogni sviluppo, anche quello dei traffici marittimi ha dovuto cominciare a confrontarsi con le ripercussioni sull’eco sistema; il trasporto su gomma, se da un lato ha creato ricchezza per gli operatori, dall’altro ha messo in discussione la sicurezza di un sistema autostradale del nostro Paese, concepito negli anni ’50 e realizzato tra gli anni ’60 e ’70. Un sistema in cui le due corsie per carreggiata risultavano e risultano tutt’ora, insufficienti anche al solo traffico automobilistico, figlio prima del boom economico e poi di quello generato con la crescita degli anni ’80. Ma come dicevamo a mettere in crisi un sistema divenuto efficiente e per forza di cose in grado di competere su scala mondiale, ci ha pensato la pandemia con il conseguente aumento delle materie prime, dei carburanti e, dal lato opposto, con la caduta vertiginosa dei consumi. Un vero e proprio crollo anticipato dal fallimento di alcune compagnie di trasporto marittimo come, nel 2016, la Hanjin Shipping che, all’epoca, era la prima compagnia di trasporto di container della Corea del Sud e la settima al livello mondiale, con una flotta di quasi centocinquanta navi portacontainer. Una bancarotta capace di dimostrare una crisi strutturale di tutto il sistema mondiale del trasporto marittimo e anche lo squilibrio nel rapporto tra naviglio disponibile e merci da movimentare. L’esigenza, tra globalizzazione selvaggia, liberalizzazione utile a stimolare a mantenere viva la concorrenza, tutela del lavoro e degli investitori, è ancora una volta la necessità di realizzare una governance, capace anche di trovare risposte in termini occupazionali in un settore sempre più specializzato, che necessita di competenze complesse, capaci di rispondere al trend di crescita che si sta manifestando in questi ultimi mesi post pandemici. Non dimentichiamo però che dietro l’angolo, a causa dell’effetto della crescita eccessiva dell’inflazione che si ripercuote sull’economia, ci aspetta il rischio di vanificare ogni sforzo che sia gli operatori che i lavoratori stanno compiendo. Il rischio è quello di una nuova grande recessione, comunque di un clima di incertezza che rallenta gli investimenti, se non addirittura a posticiparli anche a causa della crescita dei tassi d’interesse applicati dalle banche centrali. Una luce di speranza si manifesta in questi ultimi giorni con la riduzione dei costi dei prezzi dei carburanti e combustibili necessari al trasporto marittimo e a quello della filiera logistica portuale fino agli hub di scambio europei il cui collegamento necessità però di infrastrutture adeguate ed efficienti in tempi brevi. Luci ed ombre dunque per un settore strategico per lo sviluppo e la crescita del nostro Paese, per fare in modo che l’Italia possa riprendere con nuovo vigore a dire la sua al tavolo delle grandi economie mondiali.