Uno studente su due finisce la scuola superiore con competenze insufficienti in italiano e matematica. Analizzando nel dettaglio: in italiano solo il 51% degli allievi (un punto in meno rispetto allo scorso anno) ha raggiunto il livello base. Nel 2019 il dato superava il 60%. Da aggiungere anche il divario tra Nord e Sud, che raggiunge la quota di ben 23 punti percentuali. In matematica, il 50% dei ragazzi ha conquistato invece il livello base, come nel 2022, a fronte del dato del 61% del 2019. In questo caso il dislivello tra le aree del Paese arriva a 31 punti percentuali. Questo è quanto è emerso dal rapporto Invalsi 2023, presentato alla Camera, confermando la situazione disastrata che si era già verificata nel 2022. Uno scenario inquietante che si integra con l’allarme lanciato dal presidente dell’Associazione grafologica italiana (Agi), Guglielmo Incerti Caselli: “I ragazzi devono riprendere a scrivere a mano o avranno gravi carenze cognitive”.
Una piaga sociale gravata dalla salute mentale dei giovani che si mostra sempre più labile: circa l’8% tra i ragazzi di età compresa tra i 15 e i 19 anni soffre di ansia, il 4% di depressione, mente nel 2020 circa in Europa sono morti all’anno per suicidio circa 931 giovani. Questi sono i dati agghiaccianti stimati dallo State of Children in the European Union del 2024.
Un panorama macabro accompagnato da dettagli sempre più raccapriccianti e di cui parleremo con la giurista Elisabetta Frezza, che da anni si occupa del problema dell’istruzione in Italia, con all’attivo un impressionante carnet di conferenze e di interventi nel mondo dell’informazione alternativa nonché saggi, fra cui «MalaScuola. “Gender”, affettività, emozioni. il sistema “educativo” per abolire la ragione e manipolare i nostri figli» (Casa editrice Leonardo da Vinci).
Com’è possibile che uno Stato, in cui il diritto allo studio è costituzionalmente riconosciuto, si ritrovi con un sistema scolastico così compromesso?
“La Costituzione ormai è una bella signora imbalsamata, sigillata in una teca. Sta esposta al pubblico, viene ammirata, le sono riservati inchini e complimenti. Emana ancora qualche effluvio, sotto la specie gassosa di formule rituali da recitare ad pompam alla bisogna. Ma nella sostanza è disattivata. I suoi principi cardine sono stati allegramente svuotati dall’azione di slogan ammaliatori che, come dei tarli, ne hanno eroso il contenuto e stravolto il senso. Il tarlo che si è mangiato e digerito il cosiddetto “diritto allo studio” di cui parla l’art. 34 si chiama “inclusione”: un bel nome che rimbalza ovunque e che significa, di fatto, abbassamento di obiettivi e risultati assecondando limiti e fragilità, pigrizia e incostanza dei singoli studenti e, per solidarietà, di tutti gli altri. Una livella, insomma, piazzata rasoterra, invece che uno stimolo a raggiungere traguardi elevati. In fondo, a pensarci, questo è il modo migliore – il più subdolo – per bloccare l’ascensore sociale: l’egualitarismo dell’ignoranza interno alla scuola si traduce fatalmente al suo esterno in differenziazione classista (Gramsci, che ci aveva visto molto lungo, parlava al proposito di divisione in caste), perché lo status della famiglia di provenienza, a quel punto, diventa più decisivo che mai per il destino degli alunni”.
Ma questa deriva è recente?
“No. La cosa incredibile è che le statistiche offrono da tempo un quadro preoccupante: i dati hanno cominciato a precipitare, e non solo in Italia, dagli anni immediatamente successivi all’accelerazione digitale, più o meno dal 2010. Non che ci fosse bisogno di loro: chiunque abbia a che fare con la scuola ne constata ogni giorno il collasso. Eppure, nonostante tutto, nonostante persino gli stessi enti di rilevamento para-governativi registrino il tracollo degli apprendimenti, si va avanti pervicacemente, e impunemente, nella direzione segnata, senza pensare di correggere la rotta, tantomeno di invertirla. E chi lavora nella scuola, o usufruisce del servizio che la scuola offre, tace e acconsente. Perché irretito, perché obbediente a prescindere, o rassegnato, o frastornato dal fumo alzato da un gergo ipnotico col suo strisciante potere performativo. La demolizione controllata della scuola italiana prosegue da decenni, come parte – decisiva – di un processo più ampio e pervasivo di colonizzazione linguistica e culturale. Si realizza attraverso l’importazione massiva dei desolanti pacchetti pedagogici di matrice anglosassone (non per nulla le riforme parlano inglese), che ha provocato un progressivo depauperamento dei contenuti disciplinari (vale a dire dei fondamentali, a partire dal leggere, scrivere e far di conto), sostituiti da progetti di tutte le fogge, laboratori assortiti, contenuti ideologici prescrittivi: la scuola oggi addestra a tenere stili di vita e modi di pensare conformi, impartendo lezioncine morali sotto forma di educazioni omologate. Anziché la cassetta degli attrezzi – di conoscenze – per imparare man mano a strutturare un proprio pensiero e a interpretare autonomamente la realtà, si fornisce all’allievo una poltiglia prepensata che va al passo della propaganda mediatica: stessi mantra, stessa iconografia, stessi codici corrivi. Così, della scuola resta solo l’insegna appesa sulla facciata, e a questo punto tanto varrebbe cambiarla”.
A suo avviso, che tipo di correlazione c’è tra la crisi del sistema scolastico e quella culturale?
“La scuola è una lente di ingrandimento dei fenomeni che investono la società ed è, insieme, un immenso laboratorio: lì dentro c’è un ben di Dio di materiale umano su cui mettere le mani, un mucchio di pasta da plasmare. Per questo è un ambiente delicatissimo e, per questo, non bisogna mai stancarsi di ricordare che ad essa si addicono, per natura, i contenuti durevoli, stabilizzati, quelli che hanno resistito alla prova del tempo, gli invarianti. Lì dentro, si iniziano i giovani al sapere teoretico, cioè si insegna loro ad afferrare le cause, ad elevarsi alle leggi, agli universali, che sono poi gli strumenti di comprensione della realtà.
Ecco perché deve stare al riparo dai venti delle mode, dal magma dell’attualità, dalle suggestioni mediatiche e dai flussi emotivi, che nulla hanno a che vedere con il ruolo dell’istituzione. Il profluvio di pseudo-educazioni ideologicamente orientate con cui oggi si vogliono imporre modelli di comportamento e dettare imperativi morali, intestandosi un indebito potere omologante, corrompono l’essenza stessa della scuola. E aprono la strada a una insidiosa deriva autoritaria.
Insufflati di un sacco di scemenze usa e getta (che confinano la didattica delle discipline in posizione del tutto marginale), gli studenti approdano alle medie, persino alle superiori, senza essere capaci di impugnare una penna, saper scrivere in corsivo e prendere appunti; senza riuscire a mantenere l’attenzione se non per un tempo sempre più breve; senza essere in grado di afferrare periodi complessi ma, ancor prima, senza comprendere il significato delle parole che eccedano un repertorio immiserito e volgarizzato. Sopravvive un solo modo verbale, l’indicativo, con giusto un paio di tempi, presente e passato generico. L’italiano della nostra tradizione letteraria sta diventando di fatto una lingua straniera: è sempre meno accessibile, a tratti del tutto incomprensibile. E non ci si riferisce all’italiano di Dante o di Machiavelli, ma a quello di Pascoli, di d’Annunzio, di Manzoni (lo lamentava, ancora negli anni ’80 del Novecento, Alfonso Traina, e chissà cosa direbbe ora).
Queste debolezze strutturali, diffuse e ingravescenti, ostacolano la produzione orale e scritta, e condannano troppo spesso gli alunni al silenzio e alla pagina bianca. Con tutta la frustrazione che ne deriva”.
A proposito di correlazioni, i problemi di salute mentale tra i giovani si possono considerare una conseguenza di questo declino sia scolastico che culturale?
“Sono il precipitato di una civiltà che sta suicidandosi, e lo fa sotto il segno sinistro dell’inversione. La mancanza di qualsiasi punto di riferimento, a partire dalla famiglia, e di modelli virtuosi in un mondo senza eroi; l’abolizione di ogni sforzo e del valore del sacrificio e, con essi, della soddisfazione che deriva dal riuscire a raggiungere con le proprie forze una meta, magari dopo qualche scivolata lungo la via; la solitudine siderale del “cittadino globale e digitale” di cui l’agenda 2030, nuovo Evangelo globale, deve farsi demiurgo; la confusione identitaria suggestivamente indotta, e fomentata senza alcuna remora da sedicenti educatori (vedi carriera alias, che meriterebbe un capitolo a parte per la sua demenziale, paradigmatica gravità), lo stordimento da connessione permanente alle protesi tecnologiche: non si può pensare che tutte queste distorsioni siano salutari per un cucciolo d’uomo e per il suo sviluppo. Bisogna poi aggiungere che ai più giovani, già fiaccati dalla cottura lenta in una società allo sbando, il regime pandemico ha inferto il colpo di grazia, sommando alle voragini cognitive un danno psicofisico generalizzato. Dopo l’isolamento forzato e l’esperienza devastante della DAD, gli studenti sono rientrati in aula più arrugginiti e inselvaggiti che mai, regrediti e profondamente provati dalla deformazione protratta dei ritmi della loro quotidianità, dalla immersione telematica in apnea, dalla prolungata desuetudine allo studio, dalla espropriazione di quel contesto vitale, fisico e partecipato, che la classe costituisce in modo infungibile. Le patologie sono esplose. Ancora una volta, la cosa incredibile è che, anziché rimuovere o ridimensionare le cause del disastro, l’istituzione spinge sull’acceleratore.
Il rapporto UNESCO del 2023 che esamina gli “effetti avversi” dell’uso assorbente delle tecnologie educative si intitola significativamente An ed-tech tragedy. Eppure, avanti tutta. Al più, si interviene sui sintomi imponendo a tutti, volenti e nolenti, le prestazioni dello psicologo d’ufficio. Sull’onda della medicalizzazione e della psichiatrizzazione di ogni esistenza, e del controllo totale”.
Quanta responsabilità ha la famiglia in questo scenario che degenera di anno in anno?
“I genitori appaiono in generale sempre più gravemente infantilizzati. Faticano a leggere la mappa, si lasciano abbagliare e sedurre dagli effetti speciali esposti in vetrina (la vetrina si chiama PTOF e, grazie al regime di concorrenza tra istituti, contiene quante più attrazioni possibili per accaparrarsi la clientela).
La più parte di loro si accontenta del bel voto gonfiato, da ottenere senza fatica, senza stress e senza frustrazioni. Non comprendono – non solo loro per la verità – che la prodigalità valutativa, essendo una finzione, è non soltanto diseducativa, ma mortificante sia per il mittente sia per il destinatario. Hanno recepito l’idea che la scuola debba essere ritagliata come un abito su misura addosso al loro figlio, protagonista assoluto se non vero e proprio tiranno in un mondo che gli ruota attorno (peccato che questo figlio cambi taglia ogni momento, perché cresce e matura, e per fortuna). Le famigerate chat di classe sono i loro sfogatoi e generano mostri a ciclo continuo. A fronte dei genitori che si disinteressano del senso della scuola e delegano troppo, ci sono però anche le famiglie che vorrebbero dalla scuola ciò che la scuola dovrebbe fare, cioè istruire, e che invece si vedono espropriati di proprie prerogative inalienabili, con una vera e propria invasione di campo della educazione in senso stretto, fin dentro la sfera intima e personalissima della sessualità”.
Si è parlato di responsabilità. Quali sono invece le soluzioni che sia il nucleo familiare che scolastico dovrebbero adottare per evitare che la situazioni degeneri ulteriormente?
“Gli uni e gli altri dovrebbero cercare di mettere a fuoco i contorni di questa degenerazione, ovviamente dopo aver preso atto che esiste; di penetrarne le cause e gli effetti, di comprendere l’essenza del proprio compito per saperlo riconoscere e difendere. Sono convinta che, soprattutto nella classe docente, siano in molti a sentirsi isolati e depressi. Ed è comprensibile. Dovrebbero essere i promotori del sapere e invece, costretti a rendersi satelliti dell’alunno, sono relegati al ruolo subalterno di assistenti, di animatori, di facilitatori; degradati al dilettantismo psicologico e ora soprattutto informatico, mentre diventa irrilevante, paradossalmente quasi inopportuno, che conoscano bene la propria materia di insegnamento al fine di trasmetterne la sostanza, e l’amore. In questo modo, fatalmente perdono autorevolezza e prestigio, vengono umiliati nella loro professionalità e marginalizzati in un contesto che non valorizza la preparazione, restano totalmente disarmati di fronte all’imbarbarimento dilagante. Nel tempo, questo trattamento li ha intimamente passivizzati.
Il fatto è che la scuola deve tornare a fare la scuola. Il primo dei servizi che essa dovrebbe onorare, a maggior ragione di fronte al monopolio di tecnologie tanto sofisticate e tanto invadenti è quello di coltivare il linguaggio, chiave di accesso a un patrimonio inestimabile (e indisponibile) di scienza, arte, letteratura, che altrimenti rischiamo di perdere irrimediabilmente. Solo recuperando la sua sostanza culturale attraverso l’uso della parola vera, della parola che mantiene la presa sulla realtà che designa (e che è il contrario esatto della barbarie degli slogan), la scuola può tornare a essere vivaio e palestra di libertà.
Senza la parola non c’è comunicazione, col suo valore catartico: sapersi esprimere e saper comprendere gli altri è ciò che permette di uscire dal proprio guscio autoreferenziale superando la limitatezza e l’istintività della propria esperienza contingente. Ma, prima ancora, senza la parola non c’è ragionamento e, con esso, la capacità di sapersi emancipare da visioni settarie e parziali, imposte ab extra, per imparare ad analizzare la realtà e ad affrontarla responsabilmente. Vale la pena di ribadire ciò che potrebbe apparire ovvio, ma non lo è più. Che la scuola non è una struttura ludico-ricreativa o socio-assistenziale, non è nemmeno un centro di addestramento alle professioni del futuro o un’agenzia di collocamento. È il tempio (ora profanato) delle conoscenze sedimentate in millenni di civiltà e della loro lenta e paziente trasmissione alle nuove generazioni.
Sono convinta che, se comincia a risuonare nell’aria un’eco di verità sullo stato della scuola italiana, si può risvegliare in chi la abita un orgoglio ormai quasi spento per consunzione. Solo una massa critica preparata, motivata, forte delle proprie convinzioni, può risollevare le sorti di una istituzione allo sbando: la più preziosa delle istituzioni pubbliche, quella che più di ogni altra ci parla di futuro in un mondo che rema contro la vita ma che deve tornare a celebrarla, coltivando il gusto per le cose belle”.