Un’Europa senza cultura e senza identità che minaccia libertà e proprietà dei cittadini
Cosa ci giochiamo con le prossime elezioni dell’8 e 9 giugno? Teoricamente il rinnovo del Parlamento dell’Unione Europea. Una torre di Babele con dentro 27 delegazioni nazionali in rappresentanza di altrettanti Paesi membri.720 scranni di cui 76 riservati all’Italia. Un posto ovunque nel mondo. Un’algida costruzione in acciaio e vetro senza cultura e senza identità. Dove le bandiere nazionali sono di fatto bandite ad eccezione della sola aula. Praticamente però molto di meno. Ma anche molto di più. Sembra un controsenso ma così non è. Molto di meno perché il parlamento con doppia sede a Bruxelles e a Strasburgo (dove si sposta allegramente, vistosamente e costosamente una volta al mese con TIR pieni di faldoni che fanno avanti e indietro alla faccia della sostenibilità ambientale e della moderna tecnologia digitale) approva sì la nomina del Presidente di Commissione (un simulacro di governo europeo) ma non può di fatto decretarne la sfiducia al pari di un normale parlamento nazionale. E sempre al pari di un normale Parlamento di fatto non è il motore della produzione normativa europea. Che a differenza dei motori a scoppio, quello sì andrebbe spento e per sempre. Il Parlamento UE le leggi di fatto non può proporle ma solo emendarle. E pure qui bisogna che siano d’accordo la Commissione UE che in quanto governo, non solo la normativa UE la applica, ma addirittura la propone (in barba ai fondamenti più elementari dello Stato di diritto di cui l’UE crede di essere paladina ma è la prima in realtà a violarli) ed il Consiglio UE (un organo che rappresenta i 27 governi al cui interno vi siedono i ministri competenti a seconda della normativa che si approva). Organo questo da non confondersi con il Consiglio Europeo dove invece vi siedono i 27 capi di governo. Vi fa male la testa? Siete in ottima compagnia. Lo hanno fatto apposta perché non ci capiate nulla. Ma almeno una cosa l’avrete compresa. Il Parlamento UE ha molti meno poteri di quello di un normale parlamento nazionale.
Ma è anche in ballo però molto di più, come scrivevo qualche riga sopra. Abbiamo visto il profluvio di normative tossiche che in questi anni sono state prodotte in obbedienza alla dottrina Timmermans (nome dell’ex commissario olandese all’ambiente che ha lasciato l’incarico per prendere una sonora e salutare sveglia dai suoi concittadini alle elezioni politiche nazionali). La più nociva di tutte riguarda lo stop alla produzione dei cosiddetti motori endotermici (benzina e Diesel) a partire dal 2035. Sembrano dieci anni ma è domani in termini industriali. Dopo questa scadenza potranno essere immatricolate in UE soltanto auto completamente elettriche. Le case automobilistiche europee hanno scioccamente pensato che questa fosse la loro festa. Obbligare i consumatori ad un ricambio forzato del parco macchine con una marea di incentivi pubblici. Cosa non sognare di più goloso per chi produce auto elettriche? I risultati sono sotto gli occhi di tutti. I consumatori di auto elettriche non vogliono saperne. Come dargli torto? Costano un occhio della testa e sono disfunzionali. Ci saremmo dovuti meravigliare del contrario. Se ci metti nove ore per andare da Roma a Milano con un’auto elettrica non è un viaggio ma un pellegrinaggio. Il nuovo Parlamento UE potrebbe a seconda dei risultati iniziare un’inversione ad U per provare a fermare questa follia. Sempre che non sia troppo tardi come in molti temono. Nel frattempo, l’industria dell’auto europea ha infatti smesso di studiare nuovi modelli. Ed è molto probabile che tornino a vincere i giapponesi. Quelli che dominavano il mercato sul finire del secolo scorso. Per il banale motivo che essendo l’Europa per loro un mercato periferico hanno laicamente continuato ad investire su tutte le tecnologie possibili (dall’endotermico all’ibrido passando per il full electric). Akio Toyoda che della quasi omonima casa automobilistica è il numero uno non ha dubbi: «l’auto elettrica non sarà il futuro». E ad oggi nemmeno il presente se non nella testa dei tecnocrati «europeesi».