La collana «fact-checking» dalle foibe minimizzate alla cancel culture
«C’era una volta la casa editrice Laterza, importante e prestigiosa. Un giorno diede alle stampe un libello di un personaggio oscuro, alla guida delle sparute file dei negazionisti in materia di foibe». La denuncia di Maurizio Gasparri, sulle pagine di «CulturaIdentità» in edicola dal 5 ottobre, spara ad alzo zero contro una casa editrice che aveva avuto fra i suoi quarti di nobiltà Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Oggi, invece, i tipi che hanno stampato Tullio De Mauro e Stefano Rodotà sono impiegati per una collana il cui inchiostro ha il colore livido dell’oicofobia, l’odio per le proprie origini e la propria nazione.
La collana Laterza in questione diretta da Carlo Greppi si qualifica già dal nome: «Fact checking – la storia alla prova dei fatti». Scelta che implica sia la sudditanza culturale alle tendenze d’oltreoceano, sia la moda social del «bollino di qualità» degli «esperti indipendenti». «Esperti» che il più delle volte si limitano a constatare l’ovvio o peggio operano intorbidando le acque attorno a quelle vicende al limite fra verità e teorie del complotto prima che queste vengano, puntualmente, confermate dai fatti. Del resto, il passato prossimo ha le fosse piene di post e articoli «invecchiati malissimo» con i loro tentativi di «sbufalare» finiti a loro volta sbufalati dalla dura realtà.
E il fact checking di Laterza finora ha operato allo stesso modo: da un lato dimostrare l’ovvio e portare l’attacco un po’ provincialotto alla storia italiana del ‘900 per poi approdare ai temi woke cari ai social justice warrior d’oltreoceano: il passato è bello ma va ripulito e l’unico revisionismo buono è quello che fa buttar giù monumenti.
La denuncia di Gasparri partiva da uno dei best seller Laterza, quel «E allora le foibe?» che faceva il verso a un tormentone di Caterina Guzzanti. Un libro che si inserisce perfettamente nel solco dell’«ignorazionismo», un particolare filone pamphlettistico a cui piace vincere facile attaccando ideologicamente la volgarizzazione di un pensiero storico scomodo, ma ignora accuratamente dati, fatti e documenti e soprattutto il confronto con qualunque tesi più complessa di una chiacchiera da bar. L’ignorazionista non è infatti un negazionista ma un esperto di polemica che, ammantandosi di un’autorevolezza conferita dall’imponente macchina dell’egemonia culturale, si erge a maestrina dalla penna fucsia per correggere gli sfondoni popolareschi, dalle pensioni inventate dal Duce ai 30.000 infoibati. Tutte credenze popolari mai considerate dal dibattito accademico o dalla divulgazione più seria. Ma che essendo diffuse nell’ingenuità della gente comune c’è gioco facile a farle apparire come «l’opinione prevalente» fra gli «analfabeti funzionali». E nel mentre correggono gli sfondoni da social, gli ignorazionisti si adoperano per raccontare la storia ignorando i fatti. Come le cause dell’invasione italiana della Jugoslavia o la cancellazione dell’identità italiana della Serenissima abolendo figure chiave della coscienza nazionale come l’istriano Gian Rinaldo Carli, autore nel 1765 del fondamentale Della patria degli Italiani.
Insomma, una brutta china che si incontra proficuamente coi vizi d’oltreoceano. Come dimostrato da un altro successo della collana, Tutte storie di maschi bianchi morti, di Alice Borgna, altro titolo mutuato da un tormentone da campus USA. Pamphlet teso a dimostrare come in America non vi sia alcuna sistematica cancel culture nei confronti dei classici, ma solo un «panico morale» dei governatori repubblicani.
Di fatto il «fack checking» di Laterza più che mettere la storia alla prova dei fatti, applica il vizio wokeista di considerare i «sentimenti più importanti dei fatti». Ovvero si mette al riparo del «questa cosa è offensiva» ogni volta che in un dibattito ci si scontra con la scomoda circostanza che oltre l’ideologia e i sentimenti esistono anche i fatti. Così, contestare le tesi della religione del «fact checking» è sempre più difficile, per il rischio d’essere marchiati a fuoco come «fascisti», «maschilisti», «colonialisti» o «bigotti». Una gran brutta finaccia: aver contribuito a scavare una trincea di incomunicabilità nel dibattito culturale. Chissà cosa ne penserebbe Benedetto Croce.