Le nostre Città Identitarie che guardano al passato con quello slancio futuro

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Una vita che nasce è al contempo causa e conseguenza della crescita economica. Ne è causa perché un’economia non può crescere se non aumenta la sua forza lavoro. Ne è conseguenza perché “se vedi rosa fai figli”. Nella società contadina del dopoguerra i figli erano preziosa forza lavoro per lavorare i campi e sfamare la famiglia. Nella società urbana più contemporanea la prospettiva cambia. Nel 1960 nascevano oltre 900mila italiani ed oggi 400mila. Eravamo più poveri ma sapevamo che i nostri figli avrebbero vissuto meglio dei padri. L’ascensore sociale funzionava a meraviglia. Oggi vale invece l’esatto contrario. Ed a pagarne le conseguenze sono anche le nostre città. Quei borghi situati, in particolare, nelle aree interne dell’Appennino Centro Meridionale; destinati a rimanere senza vita e senz’anima. Senza cultura. Senza identità. Il Manifesto delle Città Identitarie parte da qui. Dal loro ripopolamento. Borghi da ricostruire valorizzandone l’identità e con una viabilità adeguata e moderna. Abbiamo costruito l’Autostrada del Sole in meno di otto anni. Oggi nel doppio del tempo a malapena saremmo in gradi di progettarla. E questo sarebbe il progresso? Stiamo aggregando amici, artisti, intellettuali, giornalisti, imprenditori. Persone famose e persone comuni. Tutte animate da un desiderio. Rilanciare il nostro straordinario Paese. Partendo dalla nostra cultura. Dalla nostra identità. Valorizzando le nostre opere d’arte. I beni culturali che sono il cuore delle nostre città identitarie. Altro capitolo del Manifesto. E se l’Italia è il primo Paese al mondo quanto a numero di siti patrimonio dell’UNESCO un motivo ci sarà. Non possiamo permetterci di morire e far morire le nostre città insieme a noi. Devono sopravviverci. La strada appare in salita è vero! Senza una politica nazionale attiva che favorisca la natalità. Ma non tutto è perduto, perché il mondo gira su traiettorie imprevedibili. Le grandi città non se la passano tanto meglio. Lo smart working nei due anni di covid è diventato un’ossessione. Ha svuotato i grandi centri urbani soprattutto nelle ore di punta. E tante piccole attività impegnate soprattutto nel mondo della ristorazione hanno pagato pegno. La CGIA di Mestre stima che nei due anni susseguitisi allo scoppio della pandemia siano morte 215 mila partite IVA. Talvolta finte perché dietro quella stringa si nascondono lavoratori “precari” senza accesso al mercato del lavoro tradizionalmente inteso. Talvolta invece erano vere e proprie microimprese che prima c’erano ed ora non ci sono più. E se lo smart working fosse l’insperata occasione che le città identitarie hanno per fermare un destino solo in apparenza segnato? La nostra economia purtroppo da anni campa soprattutto di servizi. E questo non va affatto bene. Ma in compenso si può lavorare anche da San Biase in Molise con poco meno di 150 dipendenti oltreché alla Bicocca a Milano. Forse non tutto è ancora perduto. La tecnologia NFT in compenso fornisce un’inaspettata opportunità per coniugare la bellezza, l’unicità ed il valore di un bene artistico con la fruibilità della tecnologia. Investire nella cosiddetta banda larga, come appunto prefigurato nel Manifesto delle Città Identitarie, ha quindi un suo perché. Non è un semplice slogan da sinistra progressista e perbenista. Decine di Comuni si iscrivono alla nostra rete. Vogliamo raccontarli dalle nostre pagine. Il mensile che stai leggendo. E nei nostri Festival. Uno a Senigallia e l’altro a Vibo Valentia. Con un sogno anzi un obiettivo. Quello che ogni città un giorno abbia il suo festival per raccontare le radici, la tradizione, il cibo e la cultura enogastronomica del territorio. In un modo contemporaneo. Recuperando l’energia e la vitalità di una delle stagioni forse più feconde per la nostra cultura e la nostra identità. Gli anni del futurismo. “Il coraggio, l’audacia, la ribellione saranno elementi essenziali della nostra poesia”, scriveva Filippo Tommaso Marinetti profeta inascoltato del 900. Noi siamo qui per raccogliere e nutrire quel pensiero e quella testimonianza. Tradizione e innovazione possono fondersi nel racconto della bellezza del nostro paese facendo appassionatamente l’amore. “Oggi essere avanguardisti, anzi futuristi, significa recuperare e difendere le nostre tradizioni, le nostre radici, le nostre origini. Il mondo globalizzato ci vuole fintamente uguali, tutti livellati, tutti uguali e senza volto. Tutti con una maschera. Anzi con la mascherina”, dice il nostro direttore Edoardo Sylos Labini. In un mondo di pazzi che credono che l’uomo da solo possa modificare il clima del pianeta, rivendichiamo il desiderio e la determinazione di vivere in un pianeta pulito e respirando aria buona. Altro punto del nostro manifesto. Ma non inseguendo il mito dell’auto elettrica e distruggendo catene di produzione nel settore della meccanica che grande hanno reso in passato il nostro Paese. Quelle che l’euroburocrate Timmermans -nel pieno del suo delirio- chiama il passato. E che invece erano produzione industriale, occupazione, ricchezza, benessere ed imprenditoria diffusa. Raccontiamo la nostra proposta sempre con la passione di Marinetti estasiato di fronte alla bellezza della velocità. Non ci perdiamo nei deliri del cambiamento climatico. Il clima del pianeta è sempre cambiato. I deserti e le ere glaciali ne sono la testimonianza. Come del resto lucidamente confermato dal professor Antonino Zichichi, secondo cui “il riscaldamento globale dipende dal motore metereologico dominato dalla potenza del Sole. Le attività umane incidono al livello del 5%: il 95% dipende invece da fenomeni naturali legati al Sole. Attribuire alle attività umane il surriscaldamento globale è senza fondamento scientifico”. Ed è dall’industria che bisogna ripartire perché non si può campare di soli servizi. L’Italia è il Paese dei distretti industriali. Delle multinazionali tascabili. Siamo futuristi. Ma anche dannatamente conservatori. Siamo altra cosa rispetto ai progressisti. Siamo quelli della cultura del lavoro, del sacrificio e del risparmio. Quelli che comprano la macchina non un servizio di mobilità a noleggio. Ci piace il mondo di uomini che con una semplice licenza elementare hanno creato imprese floride che manager strapagati hanno a malapena mantenuto e più spesso distrutto. Questo non è futurismo. Questo è il futuro. Quello che ci piace. Quello che riavremo. Perché, come dice Peter Drucker: “il modo migliore per prevedere il futuro è costruirlo”.

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