L’Occidente non sa più pregare, Sandokan sì

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Riproporre in tv il ciclo di Sandokan era una sfida ambiziosa ma dall’esito non scontato, 50 anni dopo il fortunato sceneggiato di Sergio Sollima con Kabir Bedi, divenuto lui stesso un’icona del mito salgariano. E se nel lontano 1976 il Sandokan televisivo ebbe grande successo ma una critica negativa sia da sinistra, che lo considerò ridicolmente anacronistico, sia dal mondo moderato e cattolico, ancora allergico alle scene realistiche di violenza e sentimento. Oggi questa nuova e per molti aspetti sontuosa produzione italo-americana verrà promossa oltre che dal pubblico anche dalla critica ribaltando le perplessità del passato. Non sarà più anacronistico denunciare i pericoli di un neocolonialismo culturale e non sarà più un problema rappresentarne il conflitto con i giusti toni realistici. Certamente non dovremo cadere nella trappola ideologica di chi, e qualcuno certamente salterà fuori, scriverà che oggi il successo popolare di Sandokan, l’eroe dell’anticolonialismo, è la risposta migliore alla decadenza dell’Occidente e alle prepotenze egemoniche a stelle e strisce. Un riflesso pavloviano della stessa ideologia coi paraocchi che 50 anni fa non esitò a bocciare come passatista il Sandokan di Sollima.

Tuttavia anche per noi il Sandokan visto in Tv da oltre 5 milioni di telespettatori italiani si presenta come un pamphlet politico ma per dire sostanzialmente una cosa: l’Occidente rischia di spegnersi se privo di memoria e di identità. Se i grandi umanisti del 1400 come Pico della Mirandola o Erasmo da Rotterdam traducevano e stampavano i testi antichi degli Auctores come Lucrezio ed Eschilo, lo facevano per comprendere se stessi, la loro natura e contemporaneità.

Non volevano imitare gli Antichi. La loro non era erudizione, accademia e ripetizione. Petrarca non voleva scrivere come Cicerone. Si sentivano moderni e protagonisti di un’era nuova ma erano convinti di essere legati indissolubilmente alle radici di una tradizione antica. Come ci insegnava un grande studioso del Rinascimento, Eugenio Garin, volevano “risvegliare” il presente con l’antico. E una fra le più belle scene del Sandokan riproposto oggi al pubblico della TV spesso distratto dal mondo frantumato e cinico dei social è quella dell’eroe malese che nel rito funebre di alcuni compagni uccisi durante l’arrembaggio di una nave nemica vorrebbe una preghiera dal portoghese ed europeo Yanez ma lui risponde con disarmante semplicità di non ricordarne nessuna.

L’occidente non sa più pregare. E allora il motivo del grande successo che ancora oggi suscita il mito salgariano non potrebbe essere la nostalgia dell’Occidente per la propria identità? E non sarebbe forse giunto il momento, anche dietro la spinta di questi riti collettivi che raccolgono milioni di telespettatori davanti al piccolo schermo, di superare la nostalgia e riappropriarci della nostra memoria per guardare più nitidamente al futuro? E per farlo occorre riabilitare la cultura, la letteratura, l’oralità del teatro, il pensiero, come in fondo ammoniva il grande poeta dei filosofi, Hölderlin quando scriveva in un celebre suo verso “chi pensa il più profondo, ama il più vivo”.

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