Dopo che, in piena emergenza Covid-19, l’Inno nazionale, Il canto degli italiani, è stato “sdoganato” dai balconi (democratici) di tutta l’Italia, appare doveroso ricordarne l’autore, Goffredo Mameli, con Genova in primo piano. Non solo perché Mameli vi era nato nel 1827, quanto perché a Genova l’inno fu eseguito per la prima volta, il 10 dicembre del 1847, durante una commemorazione della rivolta del quartiere di Portoria, quella del mitico Balilla, contro gli occupanti asburgici.
Ma chi era Mameli? “Un giovane del suo tempo, ma sicuramente molto legato alle esperienze familiari e politiche che aveva sempre vissuto; mi fa venire in mente certi trovatori medievali che trovavano il modo sia di combattere che di comporre poemi”, dice Gabriella Airaldi, docente dell’Ateneo genovese ed autrice di un recente e fondamentale L’Italia chiamò. Goffredo Mameli poeta e guerriero (Salerno, pagine 228, Roma 2019).
Da Genova, dove il testo originale è conservato al Museo del Risorgimento, Il canto degli italiani si diffuse in tutta la Penisola, diventando l’inno patriottico e repubblicano del mazzinianesimo. Del resto Mameli a quel mondo si era sempre richiamato, fin da giovanissimo.
Nel marzo 1848 è tra gli organizzatori di una spedizione di trecento volontari per andare in aiuto a Nino Bixio durante le Cinque Giornate di Milano e viene arruolato nell’esercito di Giuseppe Garibaldi con il grado di capitano. Tornato a Genova, dopo il fallimento dei moti di Milano, diventa direttore del giornale Diario del Popolo. Alla fine dell’anno si trasferisce a Roma, in rivolta contro Pio IX, dove aderisce al comitato romano dell’associazione sorta per promuovere la convocazione di una costituente nazionale, di orientamento mazziniano. Nel gennaio 1849, all’interno della Giunta Provvisoria di Governo, Mameli si occupa dell’organizzazione militare. Il giorno 9 avviene la proclamazione della Repubblica Romana. Mameli invia il telegramma “Venite, Roma, Repubblica”, in cui invita Mazzini a raggiungere la Città Eterna.
È insomma un protagonista, seppure giovanissimo, dell’epoca ed è un uomo di prima linea. Combatte a Palestrina e a Velletri. Il 4 giugno 1849 viene ferito alla gamba sinistra durante l’assalto a Villa Corsini, occupata dai francesi. Dopo due settimane la gamba va in cancrena. È decisa l’amputazione, ma ormai l’infezione è diffusa. Mameli muore il 6 luglio 1849, nell’ospizio di Trinità dei Pellegrini. Ha appena 21 anni. Il suo corpo è inumato nel sotterraneo delle Stimmate. E’ solo l’inizio di un lungo itinerario. Nel 1872 i suoi resti sono portati al Verano. Nel 1889 Alessandro Guiccioli, figlio di Ignazio Guiccioli, ministro delle Finanze della Repubblica Romana del 1849, decide di proporre la costruzione di un monumento funebre sempre al Verano. Il monumento è costruito e inaugurato nel 1891 e il 26 luglio di quell’anno le spoglie di Mameli sono sepolte lì. Solo nel 1941 viene però deciso di dare a Mameli un giusto rilievo, traslando il suo corpo nel Mausoleo ossario garibaldino al Gianicolo. Le sue spoglie sono di nuovo riesumate e trasportate all’Altare della Patria per essere poi collocate, in attesa del termine dei lavori, a San Pietro in Montorio, nel quartiere di Trastevere, poco sopra la fossa nella quale erano stati collocati i resti dei caduti per la Repubblica Romana, dove ancora oggi si trovano.
Come diceva Giuseppe Prezzolini “In Italia non c’è nulla di più definitivo del provvisorio e nulla di più provvisorio del definitivo”. La vicenda di Mameli sembra accompagnare quella del Canto degli italiani, “provvisorio” fino al 2017, allorquando è stato finalmente riconosciuto quale inno ufficiale d’Italia. Ora, dai balconi, a 170 anni dalla sua prima esecuzione e dopo 71 dalla proclamazione della Repubblica, gli italiani lo hanno riconsacrato e con esso indirettamente la figura esemplare e mitica di un eroico ventenne che in nome della “fratellanza nazionale” sacrificò la sua vita. Almeno in questo non tutte le emergenze vengono per nuocere.