Marcinelle, 8 agosto 1956: la tragedia degli emigranti italiani

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L’8 agosto 1956, nella miniera di carbone Bois du Cazier a Marcinelle, in Belgio, un incendio causò una delle peggiori tragedie minerarie della storia, uccidendo 262 dei 275 minatori presenti, di cui 136 italiani. L’incidente era il terzo per numero di vittime tra gli immigrati italiani all’estero, preceduto da quelli, sempre in miniera, di Monongah e di Dawson, negli Stati Uniti, rispettivamente del 1907 e del 1913. Quest’ultimo, verificatosi nel Nuovo Messico, è probabilmente l’ispiratore di quello struggente tango intitolato “Miniera”, di Cesare Andrea Bixio e Bixio Cherubini, 1927, ambientato in Messico, e che racconta la vicenda di un incidente minerario dove per salvare i compagni intrappolati sottoterra si sacrifica un emigrante italiano, un “esiliato” che “muore di nostalgia”, che però viene poi abbandonato alla sua sorte.

Una canzone di rancore, per la sorte degli emigrati, per la sorte dei lavoratori, per la sorte degli italiani. Che tante volte sono stati costretti a lasciare la loro patria avara di lavoro e del minimo indispensabile per vivere, per andare a cercare la fortuna all’estero, spesso disprezzati, sfruttati. E massacrati.

Nel dopoguerra l’Italia della ricostruzione aveva ancora una volta più braccia che posti disponibili. Pagava così con capitale umano le risorse di cui mancava, per la povertà del nostro sottosuolo e per la perdita dell’impero coloniale. Il carbone belga era necessario all’industria italiana, e al Belgio mancavano uomini per estrarlo. Quello fra i due paesi sembrava uno scambio equo: 140 mila italiani si recarono a scavare carbone in Belgio nel primo decennio postbellico. Il Belgio garantiva all’Italia due quintali di carbone per giornata di lavoro di un emigrato.

Uno scambio che però pagava dazio al disprezzo per la vita dei lavoratori, tanto più emigrati italiani, che venivano spediti sottoterra. Le modalità di lavoro nelle miniere, testimoniate da tante denunce sociali e dal XIX secolo anche dalla fotografia, sono fra le pagine più brutali della storia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e non è un caso che i romani ritenevano il lavoro in miniera il peggiore di quelli che si potevano assegnare agli schiavi oppure ai condannati: era l’anticamera dell’inferno.

A Marcinelle quel maledetto 8 agosto a causare l’eccidio fu un malinteso tra i minatori al livello 975 metri e i manovratori in superficie, che portò all’avvio errato di un ascensore. Questo urtò una trave, tranciando cavi elettrici, una conduttura d’olio e un tubo d’aria compressa, causando un incendio che riempì la miniera di fumo e gas tossici. Le strutture in legno del pozzo favorirono la propagazione del fuoco, e il sistema di ventilazione, non fermato immediatamente, diffuse il fumo letale.

La miniera, operativa dal 1830, aveva manutenzione minima e utilizzava legno per le strutture interne. L’incendio, iniziato nel pozzo d’entrata dell’aria, rese inaccessibili le vie di fuga. I soccorsi, iniziati alle 8:25, furono ostacolati dal fumo e dai danni ai cavi degli ascensori. Solo 13 minatori fra quelli presenti quell’8 agosto in miniera sopravvissero. Il tentativo di trovare qualche superstite si protrasse per due settimane, ma al 22 agosto fu chiaro che oramai non c’erano che cadaveri nei pozzi.

La tragedia colpì soprattutto gli immigrati italiani, poco più della metà delle vittime. Moltissimi erano i lavoratori che venivano dal paesino abruzzese di Manoppello, dove oggi la piazza del paese è intitolata alla tragedia: là infatti “nemmeno una famiglia è stata risparmiata” disse una testimone dell’epoca, Lucia Romasco, vedova di uno dei minatori morti. Anche i minatori belgi pagarono un tributo di sangue spaventoso.

Due processi giudiziari si conclusero nel 1964 con la condanna di un ingegnere a sei mesi con la condizionale ma la realtà era che si trattò di una serie sfortunata di coincidenze nell’incidente a provocare la tragedia, senza un vero responsabile individuale, in combinato disposto con criteri di sicurezza che – col senno del poi – si sono rivelati totalmente insufficienti. L’incendio fu causato da un corto circuito in un cavo elettrico a 975 metri di profondità, che innescò un’esplosione di gas metano. La ventilazione inadeguata (che paradossalmente contribuì ad alimentare l’incendio), la mancanza di uscite di emergenza e le attrezzature obsolete fecero il resto. La gestione della miniera fu criticata per la scarsa manutenzione e la negligenza nella prevenzione dei rischi ma a parte i sei mesi all’ingegnere citato, nessuno fu ritenuto responsabile penalmente.

Da quel momento in poi si iniziò tuttavia a considerare sistemi di sicurezza a prova anche di situazioni al limite come quella. Il «Rapport d’Enquête» del 1957, adottato da una commissione di 27 membri, evidenziò divergenze, con gli italiani che criticarono la mancata interruzione della ventilazione, causa dell’alto numero di morti. La confederazione dei produttori di carbone condusse un’inchiesta separata, i cui risultati non sono noti ma probabilmente contribuirono al rapporto parlamentare belga. Il sito di Bois du Cazier, oggi dismesso, è patrimonio UNESCO, in memoria della tragedia che segnò la storia degli immigrati italiani in Belgio.

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