Montanelli, un maestro di giornalismo e libertà (e fantasia)

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Il 22 aprile 1909 nasceva Indro Montanelli, uno dei più illustri giornalisti del 900. La sua vita fu ricca di controversie sin dalla nascita, come se fosse già destinato a vivere una vita rocambolesca sino all’età di 92 anni. Infatti, già la storia dell’assegnazione del suo nome sembrò annunciare il destino dell’uomo che lo avrebbe portato.

Figlio di Sestilio Montanelli, professore di scuola media e successivamente preside del liceo della città di Rieti, e Maddalena Dòddoli, figlia di ricchi commercianti di cotone, Indro nacque a Fucecchio (FI), nel palazzo di proprietà della famiglia della madre. Un luogo su cui girano diverse leggende, alcune di queste raccontate dallo stesso Montanelli. Il giornalista infatti raccontò che, dopo un litigio, gli abitanti di Fucecchio si divisero in «insuesi» e in «ingiuesi», cioè di Fucecchio di sopra e di Fucecchio di sotto; la madre di Indro era insuese e il padre ingiuese.

Montanelli nacque nella zona collinare, proprio come voleva la famiglia materna, il padre, invece, lo battezzò scegliendo un nome adespota, cioè scollegato da patroni e appartenenze locali. Il nome Indro, infatti, è la maschilizzazione del nome della divinità induista Indra. Un nome che, negli anni, amici ma anche alcuni avversari politici trasformarono nel soprannome «Cilindro». Ma non è finita qui, in quanto il padre gli assegnò altri tre nomi, Alessandro, Raffaello e Schizogene, cioè «generatore di divisioni». “Generatore di divisioni” un’espressione che fu profetica, in quanto Indro Montanelli con la sua penna provocò critiche e applausi, disprezzo e ammirazione, condanne ed elogi.

Una personalità fatta di luci e ombre, che trovò il suo irrequieto rifugio proprio nel giornalismo come dichiarato dallo stesso Montanelli: «Io mi considero un condannato al giornalismo, perché non avrei saputo fare niente altro.» Un’ irrequietezza e una sensibilità che graffiavano la sua anima degenerando in veri e propri attacchi di panico: «La prima crisi fu a undici anni. Mi svegliai una notte urlando “Muoio, muoio!”. Una mano mi attanagliava la gola, mi sentivo soffocare. Accorsero i miei genitori, un po’ mi quietai, ma smisi di dormire e di mangiare per mesi, avevo paura di tutto, un vero terrore, e mi sentivo addosso la tristezza del mondo intero. Dovetti abbandonare la scuola per quell’anno. I sintomi si sono poi ripresentati identici più o meno ogni sette anni, ciclicamente.»

Nel 1929 fu anche vittima di crisi depressive che però non gli impedirono di laurearsi in giurisprudenza nel 1930, con un anno di anticipo sulla durata normale dei corsi, e ad avere una seconda laurea nel 1932 in scienze politiche e sociali. Una mente brillante e un animo tormentato, forte e fragile, mordace e sensibile. Una personalità ricca di sfaccettature che troverà la sua massima espressione negli articoli di Montanelli, dando vita a una penna che, infatti, scrisse la storia del giornalismo italiano del 900. Una personalità controversa e molto discussa al punto da portare a commettere atti vandalici contro la statua in suo onore, come successo di recente a Milano, all’interno del parco che porta il nome del giornalista. La statua è stata ricoperta da vernice viola con impronte di mano sopra la targa posta sulla base. L’opera era già stata vandalizzata dalle femministe nel 2020 con vernice rossa e frasi scritte in nero volte a ricoprire tutta la targa con il nome di Montanelli.

Ma perché questo accanimento contro il giornalista che è entrato a far parte della lunga lista delle vittime della cancel culture? Per trovare la risposta, bisogna tornare indietro nel tempo, precisamente al 1935, durante la guerra in Etiopia. Allora Montanelli, che all’epoca aveva 26 anni, racconto di aver sposato una ragazzina del posto (che ne aveva 12, considerando che fra le popolazioni africane la maturità sessuale arriva almeno due anni prima NdR), secondo le usanze locali. In un’intervista televisiva il giornalista dichiarò «di aver regolarmente comprato dal padre» una ragazzina di 12 anni per sposarla. «Vista l’usanza degli ascari di combattere con la moglie al seguito, decisi anch’io di sposarmi. I miei uomini mi procurarono una giovane e bellissima eritrea […]. In questo modo, ogni due settimane mi ritrovavo, al pari dei miei uomini, con i panni puliti.»

Fatìma (che in un articolo de La stanza di Montanelli del 2000, dove ricostruisce minuziosamente la vicenda del suo primo matrimonio, Montanelli chiama invece Destà) fu comprata dal suo sciumbasci (graduato coloniale) Gabér Hishial versando al padre la convenuta cifra di 350 lire (la richiesta iniziale era di 500), più l’acquisto di un «tucul» (una capanna di fango e di paglia) di 180 lire. Compresi nel prezzo ebbe anche un cavallo e un fucile. La ragazza sarebbe rimasta al suo fianco per l’intera permanenza in Africa. Il madamato all’epoca era un’usanza locale che gli italiani avevano tollerato, e talvolta attuata su spinta dei capi-reggimento locali. Nel 1937 fu invece proibita per limitare le infezioni veneree e per evitare meticciato tra italiani e africani.

Prima del ritorno in Italia, Montanelli avrebbe ceduto, sempre secondo il suo racconto, la giovane al generale Alessandro Pirzio Biroli, che la fece entrare nel suo proprio piccolo harem. In seguito, la ragazza sposò un militare eritreo che era stato agli ordini di Montanelli nella guerra coloniale: «Nel ’52 chiesi e ottenni di poter tornare nell’Etiopia del Negus e la prima tappa, scendendo da Asmara verso il Sud, la feci a Sageneiti, patria di Destà e del mio vecchio “bulukbasci”, che mi accolsero come un padre. Avevano tre figli, di cui il primo si chiamava Indro. Donde la favola, di cui non sono mai più riuscito a liberarmi, che fosse figlio mio. Invece era nato ben 20 mesi dopo il mio rimpatrio».

Ma non è finita qui, nel 2020 un sessantasettenne italo-eritreo, originario di Sageneiti e residente a Parma, affermò in un’intervista di essere figlio di tale Lattemicael Destà, che secondo l’articolo sarebbe da ritenersi con ogni probabilità l’unica donna chiamata Destà residente a Sageneiti in quel periodo. Nata nel 1923, la donna non avrebbe avuto mai alcun rapporto con Montanelli, il quale avrebbe inventato, o comunque manipolato in modo molto significativo, la vicenda.

Dove sta la verità?

Del resto è certo: Montanelli era un immaginifico e molti dei suoi reportage avevano una dose di fantasia superiore alla realtà, ancorché fossero perfettamente verosimili. Una cosa è però certa, la storia non si cancella, perché è il miglior insegnante che il genere umano abbia a disposizione per evitare il ripetersi delle nefandezze di ciò che è stato. E, a proposito di storia, chissà cosa direbbe Montanelli sull’attuale scenario di guerra ma soprattutto su come il giornalismo lo sta affrontando e quindi riportando. Chissà quale sarebbe l’analisi di un giornalista che ha vissuto la storia della sua epoca dandole vita nei suoi articoli. Un giornalismo che Montanelli ha vissuto sui fronti di guerra europei ma anche nella trincea della vita, come si può constatare da quanto disse nel 1975, quando presentò Il Giornale, una sua creatura di cui era appunto il direttore: «Nascemmo […] per metterci contro il vento di quegli anni che soffiava in direzione del compromesso storico coi comunisti, della contestazione barricadiera, del giustizialismo, del pansindacalismo, della resa all’eversione, e per suonare la Diana della riscossa dei vecchi valori dello Stato di diritto, dell’ordine, della iniziativa privata, dell’economia di mercato, della meritocrazia, non per interpretare e propugnare i gusti e le tendenze del tempo, ma per contrastarli.»

Lo scopo del giornalista era infatti quello di dar vita a una testata che desse voce alle forze produttive della società, in particolare della piccola e media borghesia lombarda, entrando nel dibattito politico in veste di interlocutore esterno, non schierato se non su orientamenti di massima e portavoce di una destra ideale.

Una fedeltà ai suoi ideali che mise a repentaglio la stessa vita di Montanelli, che, infatti, il 2 giugno 1977, fu vittima di un attentato, ordito dalla colonna milanese delle Brigate Rosse. L’attentatore eseguì una vera e propria gambizzazione: sparò otto colpi consecutivamente, colpendo Montanelli due volte alla gamba destra, una volta di striscio alla gamba sinistra e alla natica.

Colpito, Montanelli, che portava con sé la pistola, sentì cedere le gambe, ma decise di non estrarla. Il suo unico scopo fu di non lasciarsi cadere a terra, aggrappandosi alla cancellata dei Giardini mentre urlava: «Vigliacchi, vigliacchi!» all’indirizzo dell’attentatore e dei complici in fuga; poi si lasciò scivolare a terra. L’attentato venne rivendicato dalla colonna Walter Alasia delle Brigate Rosse con una telefonata al Corriere d’Informazione (edizione pomeridiana del Corriere della Sera). Secondo la rivendicazione dei terroristi perché «schiavo delle multinazionali».

Dieci anni dopo Montanelli incontrò i due brigatisti che lo avevano ferito e che si erano dissociati dalla lotta armata. Ad un incontro pubblico in cui erano presenti anche gli ex brigatisti disse poi: «Sono da rispettare perché stanno pagando, con pene che sono state giustamente inflitte, per tutto il male che hanno fatto. Pagano e non hanno però tradito i loro compagni. Oggi rifiutano il loro passato e vogliono reinserirsi. […] Sono stati bravi, mi hanno sparato quattro colpi senza uccidermi o azzopparmi, e non è facile. Ora la guerra è finita e tra vecchi nemici si usa brindare. Però se mi avessero ucciso il padre o il figlio non sarei certo qui, ma loro stanno pagando o hanno pagato. Prima o poi riusciranno a venir fuori e quindi hanno diritto al perdono. Non amo i pentiti, ma stimo Renato Curcio, anche se siamo su posizioni opposte. Non ha mai tradito i suoi compagni e non ha ammazzato nessuno. Non capisco perché stia ancora dentro. […] Il mio conto con loro è chiuso. Li rispetto perché oggi rifiutano il loro passato.»

Orgoglio armato di onestà intellettuale, aspetti che accompagnarono la penna di Indro Montanelli fino alle varie vicende politiche degli anni 90, dove i valori del giornalista furono il suo unico padrone: “Io sono un uomo di destra, io sono un liberal-conservatore… Sono un uomo di destra che non si riconosce nelle forze che oggi si proclamano ‘di destra’.”

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