Fumatore, amante delle donne e dei motori, indisciplinato, determinato, per i parametri d’oggi anche politicamente scorrettissimo. Giacomo Puccini, il grande genio dell’opera lirica italiana fra Otto e Novecento ci lasciava esattamente cento anni fa, il 29 novembre 1924, A Bruxelles in Belgio. Se l’era portato via un cancro causato dal vizio del fumo, per curare il quale s’era spostato in Belgio.
Alla sua morte lasciava incompiuta anche la sua ultima opera, “Turandot“, l’unica che non fosse di carattere verista, ma fantastica, uscita dalla sua penna. Gli altri suoi capolavori, “La bohème” (1896), “Tosca” (1900) e “Madama Butterfly” (1904) lanciano invece uno sguardo sulla realtà, abbandonando del tutto le visioni storiche e teatrali della lirica ottocentesca italiana (ricordiamo come Giuseppe Verdi fosse stato fischiato alla prima della sua “La Traviata” per il tema “borghese”, lontano dai temi storici, shakespeariani o classici a cui aveva abituato il pubblico).
Puccini era nato a Lucca il 22 dicembre 1858 in una famiglia numerosissima: aveva infatti otto fratelli. I Puccini erano una dinastia di musicisti: maestri di cappella nel Duomo di Lucca. Tuttavia il giovane Giacomo non sembrava essere particolarmente disposto verso lo studio. Nessuno avrebbe scommesso una lira su quel discolo indisciplinato, svogliato e per nulla diligente. Eppure la perseveranza dello zio materno, che lo prese sotto la sua ala dopo la morte del padre, quando Giacomo aveva appena 5 anni, riuscì a portarlo a scoprire il suo talento musicale. A 14 anni era organista, a 19 anni già componeva musica sacra e patriottica. A 21 di diplomò strappando gli applausi della critica lucchese con una Messa per soli e orchestra.
Il talento musicale di Puccini però rischiava d’esser soffocato dalle ristrettezze familiari. Con tanta pazienza e raccomandazioni la madre Albina Magi riuscì a ottenere dalla regina Margherita un sussidio e poi un piccolo assegno da un amico di famiglia. Puccini poté così frequentare il conservatorio di Milano. Come per Verdi, il passaggio dalla provincia al centro mondiale dell’Opera fu determinante. Là conobbe Amilcare Ponchielli e Pietro Mascagni e nel 1884 riuscì ad avere un contratto dall’editore Ricordi.
Il suo primo successo, “Manon Lescaut”, 1893, gli consentì d’abbandonare Milano per tornare in campagna, in Versilia. Dopo diversi traslochi finalmente riuscì a trovare un accordo con la compagna, Elvira, per stabilirsi a Torre del Lago, vicino Viareggio, località che oggi porta anche il suo nome. Nella pace di quel posto Puccini compose la maggior parte delle sue opere, tranne l’ultima. E là è stato sepolto, nella cappella annessa alla sua villa.
In quegli anni iniziò il sodalizio artistico con i i librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa: il primo stendeva la sceneggiatura delle opere, il secondo la metteva in versi. Puccini interveniva nel lavoro di entrambi, spesso rivoluzionando perfino intere scene o la trama. Nascono così con loro prima “La Boheme”, che racconta la vita stentata degli artisti a Parigi e poi la “Tosca”. La prima era nata come scommessa fra Leoncavallo e Puccini, su chi dei due fosse riuscito a ottenere il successo maggiore partendo dal medesimo soggetto, tratto dal romanzo di Henri Murger “Scene della vita di Bohème”.
Alla fine di marzo del 1902 iniziarono i lavori per “Madama Butterfly” (basata su un dramma di David Belasco), che arrivava nel periodo della cosiddetta “japoneserie”, la mania del Giappone che – partita dalla Francia – aveva oramai preso tutta l’Europa, influenzando prima la pittura e la grafica e poi la musica. Eppure, la “Butterfly” fu un iniziale fiasco e Puccini dovette rimaneggiarla parecchio prima di portarla al successo di cui tutt’oggi gode.
Nel 1906 finalmente Puccini sposò Elvira – nel frattempo rimasta vedova – ma l’amore fra i due venne funestato dal terribile suicidio di Doria Manfredi, la cameriera che Puccini aveva preso in casa appena quattordicenne. La ragazza era molto bella, ed Elvira ne divenne terribilmente gelosa, litigando a più riprese col marito. Nel 1909, sconvolta dalle maldicenze, Doria si suicidò avvelenandosi. Puccini ne fu sconvolto, anche nel suo rapporto con la moglie e per lungo tempo rimase inattivo. Solo dopo oltre un anno tornò a vivere insieme a Elvira.
Dopo aver perso Giacosa, prematuramente scomparso, Puccini cercò di abbordare come librettista D’Annunzio, senza successo. Poco prima della Grande Guerra compose “La fanciulla del West”, mentre durante il conflitto scrisse il “Trittico”. Alla fine della guerra il sindaco di Roma Prospero Colonna gli chiese di mettere in musica un inno alla città di Roma su versi del poeta Fausto Salvatori, brano che poi venne preso dal Fascismo come uno dei principali inni del suo canzoniere, passando quindi al Movimento Sociale Italiano nel dopoguerra. Un uso politico che ne fanno tutt’oggi oggetto di polemiche feroci da parte di critici tanto ignoranti quanto prevenuti.
In quegli anni Puccini si dedicò alla stesura della “Turandot”, la sua unica opera di carattere fantastico, ma si arenò sul finale, che non riusciva a comporre. La malattia lo stroncò mentre l’opera era ancora incompiuta, appena due mesi dopo aver ricevuto da Vittorio Emanuele III il laticlavio senatoriale.