Quel ponte sullo Stretto che s’ha da fare

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E alla fine si farà. Il Ponte sullo stretto di Messina non lo fermerà più nessuno. Dopo 50 anni di chiacchiere i cantieri si metteranno in movimento entro e non oltre il 31 luglio 2024. Il Consiglio dei Ministri ha dato l’ok, “salvo intese”, forse a titolo scaramantico. La società concessionaria sarà sempre quella Stretto di Messina spa che nel 2013 misero in liquidazione (c’era Letta, poi arrivò lo “stai sereno” di Renzi….) e oggi risorge come l’araba fenice con una nuova governance e il Mef, cioè lo Stato, oltre il 51%. Sarà il ponte strallato più lungo del mondo (3,2 Km) e sarà il vanto dell’ingegneria made in Italy. Le prefiche iniziano a strillare: PD, Verdi e scommettiamo anche i Grilletti alzano le barricate fra slogan anti-sviluppisti (“opera fallimentare”) e battutine (“E’ un ponte immaginario”), ma questa volta i profeti di sventura non potranno più fermare la maxi opera. Incredibilmente da Bruxelles approvano. Giornata storica.

Per l’occasione vi proponiamo il denso articolo di Fabio Dragoni, pubblicato sul numero di marzo di CulturaIdentità e dedicato all’Italia in movimento: siamo stati buoni profeti. Noi. (Redazione).

Ha senso costruire un ponte sullo Stretto di Messina che unisca la Sicilia alla Calabria? E quanto costerebbe averlo? Credo sia più logico farsi queste domande riscrivendole e cambiandole appena. Più o meno così: “Ha senso non costruire un ponte sullo Stretto di Messina che unisca la Sicilia alla Calabria? E quanto costerebbe non averlo?”. Sono domande a cui chiunque potrebbe rispondere -quanto meno alla prima secondo me- subito dopo aver viaggiato in treno da Roma a Siracusa. Servono grosso modo dodici-tredici ore. Cinque delle quali da Villa San Giovanni (il comune calabrese che si affaccia sullo stretto) alla destinazione finale. Fate un po’ voi. A ben pensarci ci sarebbe da vergognarsi al solo mettere in discussione l’utilità di un ponte lungo meno di quattro km. A percorrerlo in macchina ad una velocità di 90 km orari ci vorrebbero meno di tre minuti. Fate un po’ voi. L’Eurotunnel che unisce la Francia alla Gran Bretagna che attraversa i fondali del canale della Manica dista grosso modo 50 km. Il tunnel ferroviario con la parte sottomarina più lunga al mondo. Fate un po’ voi, mentre noi stiamo qui a spaccare il capello in quattro a proposito di un ponte che unisca l’Italia. Un’opera dalla valenza strategica elevatissima ed avente una lunghezza relativamente minima.

“È un affare geopolitico. L’economia non ci obbliga ad avere un ponte. La Sicilia è nel cuore del Mediterraneo. Dove Turchia e Russia sono molto presenti. Connettere la Sicilia ha un valore simbolico elevato. Una leva per combattere il declino demografico e industriale del Sud”. Sono le considerazioni riportatemi da Lucio Caracciolo direttore della rivista Limes. Un’opera che, nella stima di chi sarebbe incaricato della realizzazione (Webuild), una volta messo a regime il cantiere, darebbe lavoro a quasi 120mila persone “assicurando un aumento del tasso di occupazione nazionale dello 0,5%”. Duecento giorni per approvare il progetto esecutivo e dare il via ai lavori con un’immediata assunzione di ventimila persone. La stima dell’incremento del PIL annuo sarebbe del 2,5% a regime, una volta in funzione il ponte. Per unire due regioni, Sicilia e Calabria, il cui tasso di disoccupazione sfiora e talvolta supera rispettivamente le soglie del 19% e del 23% della forza lavoro. Fate un po’ voi. È più interesse del Continente stringersi alla Sicilia che non viceversa. Con un‘opera il cui costo complessivo è stimato intorno ai sette-otto miliardi. 15-18 volte di meno di quanto il Paese dovrà accollarsi con il Superbonus per mettere i cappotti e gli infissi nuovi al 3% delle abitazioni presenti nel Paese. Ad oggi la situazione del Mezzogiorno è teoricamente disperata. Sottolineo teoricamente. A fronte di 7,2 milioni di pensionati, stando ai dati pubblicati dalla CGIA di Mestre, vi sarebbero meno di 6 milioni di lavoratori che con i loro contributi pagano quelle pensioni. L’economia del sud non sta in piedi. A meno che qualcuno non colmi il divario pagando la differenza. Questo “qualcuno” è appunto il Nord del Paese; che però legittimamente si attende che si dia attuazione alla riforma costituzionale varata proprio dalla sinistra nel 2001. È la cosiddetta “autonomia differenziata”. Le regioni che intendono farlo possono cioè gestire in autonomia molte più attività rispetto a quelle previste oggi in via ordinaria. A partire, ad esempio, dalla scuola. Il ministro Calderoli spinge perché la riforma da lui prospettata e preliminarmente approvata in Consiglio dei ministri diventi presto realtà. E dal canto suo Matteo Salvini non può che adeguarsi. Giorgia Meloni deve tener fede a due parole d’ordine ripetutamente pronunciate in ogni occasione pubblica: “interesse nazionale”. Il termine “nazione” è senz’altro il più utilizzato in ogni sua uscita. Un dilemma apparentemente irrisolvibile per Giorgia Meloni a meno di non scontentare qualcuno: il nord o il sud? La Lega o gli altri due alleati sicuramente meno inclini al regionalismo? Ma ecco che la situazione geopolitica internazionale offre una straordinaria ed insperata via d’uscita. Questa potrebbe contemporaneamente accontentare sia il Nord che il Sud del Paese.

Partiamo da una certezza. Anche qualora la pace in Ucraina scoppiasse oggi, noi il gas della Russia lo rivedremo col binocolo. E non tanto perché lo sforacchiato doppio gasdotto che attraversa il Baltico collegando Germania e Russia sia irreparabile. Tutt’altro. Come spiegatomi da Davide Tabarelli presidente di Nomisma Energia, l’operazione è più che fattibile. Ma la guerra in Ucraina si è alimentata anche e soprattutto per recidere quel cordone ombelicale che lega appunto l’Europa alla Russia. Il doppio gasdotto Nord Stream. Questo è sempre stato l’obiettivo americano apertamente dichiarato già quando alla Casa Bianca sedeva ancora Trump. Quasi sicuramente i repubblicani avrebbero ottenuto il risultato in maniera più soft ed in più tempo. Magari avrebbero evitato la guerra. Ma ora che il Partito Democratico ha fatto lo “sporco lavoro”, i repubblicani ne raccoglieranno i frutti qualora vincessero le presidenziali nel 2024. Indietro non si torna. Il cordone da recidere è stato reciso. Ed ecco quindi che l’interesse nazionale, anzi internazionale, richiede che quel gas che non arriva più dalla Russia giunga ora in Europa da altre parti. Gli americani, anche volendo, non potrebbero darci il gas liquido che ci serve. Non ne hanno la capacità produttiva. La Norvegia, sempre secondo Tabarelli, non ha riserve a sufficienza. Quel gas che serve all’Europa deve per forza arrivare dal Mediterraneo ed il Sud sarebbe la piattaforma ideale dissetare e sfamare tutto ciò che sta a nord. Non solo Lombardia. Non solo Veneto. Ma anche Francia e Germania. Tutte hanno un bulimico desiderio di energia per alimentare la macchina produttiva. Ovviamente al giusto prezzo. E dal Mediterraneo arriverebbe tutto il gas che servirebbe. Mentre la Germania era la principale porta di ingresso del gas russo in Europa, Sicilia, Sardegna e Calabria potrebbero farci arrivare il gas della Libia. Ma anche dell’Algeria. E perché no dell’Egitto. Ma anche Cipro ed Israele. A nessuno sfugge che la probabilità di una contemporanea crisi geopolitica in tutti questi Paesi è un fenomeno molto meno probabile del conflitto russo ucraino. Potrebbero essere coinvolte sia Eni che Edison, quest’ultima incidentalmente controllata dalla francese EDF. C’è spazio almeno per altri due distinti gasdotti. Sarebbe l’occasione giusta per fare pace con la Francia. L’Italia diventerebbe di fatto un Paese unico. La manifattura del Nord e l’energia del Sud. I soldi che Veneto e Lombardia (ma anche Francia e Germania) pagherebbero al Sud per ogni centimetro cubo di gas che passa dalla Sicilia e dalla Calabria consentirebbero di cominciare a risolvere una volta per tutte la questione meridionale ponendo progressivamente fine ai trasferimenti. L’interesse nazionale esige che i lavoratori al Sud passino da 6 a 8 milioni. Il Nord non dà al Sud i soldi che gli servono come sussidio bensì come il prezzo di un servizio. Avete presente il doganiere del film “Non ci resta che piangere?”. “Chi siete, cosa volete, si ma quanti siete? Un fiorino”. Ecco appunto, un fiorino per ogni centimetro cubo di gas che arriva a Gioia Tauro in direzione nord. E se il sud è diventato strategico per l’Italia e per l’Europa, perché mai non dovrebbe esserlo il ponte? Oltre che il gas, oltre che il petrolio, sono gli italiani che devono mettersi in movimento. Hanno il diritto di farlo. E forse anche il dovere. E non solo da Sud a Nord. Ma anche viceversa.

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