La “miss Italia” assoluta delle patrie lettere è Beatrice. Non sappiamo se fosse bella. Dante la conobbe quando lei aveva appena dieci anni e ne rimase folgorato, lui era più o meno della stessa età. Era la figlia di Folco Portinari, banchiere stimato nella Firenze medievale. Il poeta, che sarebbe diventato un campione dello stilnovismo, la elesse a propria musa sublimandola per la sua gentilezza e onestà nei versi memorabili della Vita Nova, che tutti ben ricordiamo. Lei, ovviamente, sposò un altro e morì neppure venticinquenne. Anche Dante alla fine si accasò con un’altra donna. Il loro fu un amore davvero platonico – i due si incontrarono due volte a distanza di anni e non si scambiarono mai parola -, un amore non risolto che qualche anno dopo però suscitò la Divina Commedia. Beatrice è infatti la donna angelo che accompagnerà Dante in Paradiso: fa il suo ingresso nel Canto XXX del Purgatorio agghindata di bianco rosso e verde, che non è la bandiera italiana, ma il colore attribuito alle tre virtù teologali: fede, speranza, carità.
La “miss Italia” per antonomasia delle patria lettere è invece Laura. A lei Petrarca, il secondo poeta italiano per eccellenza, dedicò nel Trecento un intero Canzoniere, più di 350 componimenti. Stando alle poetiche descrizioni era bellissima, biondissima (i celeberrimi “capei d’oro” sparsi al vento, come la venere del Botticelli), tanto che Petrarca la temette come la tentazione carnale che lo avrebbe distolto dalla via ascetica verso Dio. E così poteva essere, una vera bomba, se è vero che sotto le spoglie della miss angelicata si sarebbe nascosta Laura de Novalis, nobildonna francese, maritata e con ben 11 figli e infine morta di peste nel 1348, di tale bellezza che anche la morte “bella parea nel suo bel viso”. Non è chiaro, però, se con il nome Laura, Petrarca, in verità, celasse altre conquiste e tutto fosse solo un espediente per scrivere sonetti ineguagliabili.
Lo stesso ardore amoroso di Laura, pare contraddistinguesse Fiammetta, il cui nome de plume rimanda proprio al carattere focoso della donna amata da Giovanni Boccaccio che la conobbe a Napoli, forse la figlia naturale di re Roberto d’Angiò, donna assai volubile che scaricò, per un altro uomo, il poeta dopo tre anni di tentennamenti e tira e molla.
In ogni caso, dobbiamo arrivare a Ludovico Ariosto per trovare un amore consumato per certo, una miss che si concede anima e corpo: il poeta si innamorò di Alessandra Benucci, barlettana, anch’ella figlia di banchieri, sposata con uno Strozzi, trasferitasi a Ferrara, poi vedova e dunque libera di convolare a nuove nozze, seppur segretamente: lei per non perdere la precedente eredità, lui, l’Ariosto, per non rinunciare ai benefici derivanti dalla carica ecclesiastica. E’ difficile dire se la Benucci abbia ispirato il personaggio di Angelica, certo che l’eroina del poema ariosteo che fa impazzire il casto Orlando e tutti gli altri cavalieri della corte, è la prima femmina emancipata della nostra letteratura, metà angelo, metà strega, sul suo destriero, appare e dispare a piacimento, diventando da iniziale trofeo e preda predatrice.
Da qui in poi le miss della letteratura italiana si moltiplicano, ognuna con storie diverse, ognuna cantata diversamente. C’è Silvia di Leopardi, al secolo Teresa Fattorino, figlia del cocchiere che prestava servizio nella casa di Recanati, morta precocemente, come è d’uso, a cui è riservata forse la più struggente lirica d’amore di sempre. C’è Luisa Stolberg, contessa d’Albany, moglie di Carlo Edoardo Stuard, che Alfieri amò follemente. C’è la pur sposata Antonietta Fagnani Arese alla quale Foscolo, impenitente donnaiolo (sedusse Teresa Pikler, moglie di Vincenzo Monti e Matilde Dembowski che si era negata Stendhal), dedicherà la splendida ode Alla amica risanata. C’è Eleonora Duse, celebre attrice, amata, fra le molte, da Gabriele d’Annunzio che la tradì e abbandonò, ma alla cui morte dovette ammettere: «E’ morta quella che non meritai». C’è la Clizia di Eugenio Montale, al secolo Irma Bradeis, giovane ebrea americana poliglotta e studiosa di Dante, un caschetto da flapper girl, che il poeta genovese amò quasi solo per lettera negli anni Trenta, una reazione semplicemente epistolare, eternata in alcune splendide liriche e soprattutto in un primo verso indimenticabile: “Lo sai: debbo riperderti e non posso”. C’è infine Lina, la moglie di Saba, che il poeta triestino ama, forse borghesemente e in spregio alle tante follie poetiche, come moglie paragonandola prosasticamente a “una giovane e bianca pollastra” a una “gravida giovenca”, a “una pavida coniglia” a “una rondine”, a una “provvida formica”.
E le donne innamorate dove sono?