Sbloccare l’ascensore sociale per re-italianizzare chi è andato via

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“Favoriamo, incentiviamo, premiamo il ritorno in Patria degl’intelletti italiani dispersi all’estero”. Così recita il manifesto di CulturaIdentità in riferimento alla parola chiave di questo numero, ovvero italianizzare.

Già perché il nostro paese, prima ancora che essere meta d’immigrazione, come vorrebbero le cronache quotidiane, è oggi innanzitutto terra d’emigrazione, come ci raccontano le statistiche dell’Istat.

I barconi che vorremmo vedere arrivare, per spalancargli i nostri porti, sono quelli carichi di giovani italiani costretti a cercare altrove il riconoscimento professionale delle loro competenze e qualità misconosciute in Patria, finalmente messi in condizione di realizzarsi a casa propria.

E non parliamo solo delle eccellenze, dei “cervelli”: spesso “fuggono”, è vero, ma limitare il racconto del fenomeno a questo segmento sarebbe riduttivo. Ad andar via, infatti, è in generale una porzione significativa del capitale intellettuale e umano prodotto dal nostro paese negli ultimi anni; si tratta di decine di migliaia di diplomati e laureati, soprattutto meridionali, che visto il loro livello di alfabetizzazione, corrispondono a una parte consistente della infrastrutturazione sociale, economica, civile e culturale dell’Italia.

E’ vero, come ripetono un po’ tutti, investire in ricerca formazione e innovazione potrebbe tornare utile ad arginare questa emorragia, ma, se a emigrare non sono soltanto i “cervelli”, il cuore del problema, e le eventuali soluzioni, vanno cercate altrove.

Il grande dramma dell’Italia, rispetto ad altri paesi avanzati, è il blocco dell’ascensore sociale, la mancanza di prospettive di miglioramento della condizione materiale delle nuove generazioni e, più in generale, la scarsa remuneratività del lavoro ad alto valore aggiunto. E’ questo che spinge la parte più intraprendente della nostra gioventù ad andar via e non è un caso che si tratti di un problema che grava innanzitutto sul Mezzogiorno, perché oggettivamente a Milano e nelle regioni del Nord le opportunità non mancano, come ci raccontano i dati, e sono paragonabili alle medie europee.

L’allarme lo lanciò anni fa Geminello Alvi: l’Italia è un paese che privilegia le rendite (non solo quelle immobiliari e finanziarie, ma anche quelle “tecniche”, rappresentate da pensioni, assistenza e stipendi pubblici), a discapito del lavoro produttivo, sia esso imprenditoriale o dipendente. Fino a quando la politica non indirizzerà le sue scelte economiche verso una detesaurizzazione della ricchezza, rendendo il lavoro più redditizio, l’ascensore sociale resterà bloccato. E questo al netto delle politiche rigoriste imposte dall’Unione Europea ed è chiaro che utilizzare quel po’ di misure espansive disponibili nel capitolo “assistenza e pensioni”, piuttosto che in quello “investimenti”, non va esattamente nella direzione giusta.

Ma da reitalianizzare non ci sono solo i nostri connazionali andati altrove. Il discorso è davvero ampio e riguarda più in generale il nostro orgoglio e la nostra consapevolezza in quanto popolo: dalla cultura al cosiddetto Made in Italy, senza dimenticare la necessità (come dimostrano recenti discussioni su Via della Seta e collocazione internazionale del nostro paese, troppo spesso viziate da posizioni preconcette e dalle urla delle opposte tifoserie) di dotarci finalmente di un pensiero strategico, da rendere patrimonio comune dell’opinione pubblica, che consenta all’Italia di perseguire con sicurezza il proprio interesse nazionale (e non quello altrui) in una fase in cui gli scenari mondiali sono in rapido cambiamento.