Sergio Colicchio è uno dei maestri più richiesti dai registi di teatro e cinema, per la sua capacità di unire un’originalità avanguardistica ed estremamente contemporanea a un gusto raffinato per le sinfonie più classiche. Braccio destro di Nicola Piovani in numerose produzioni adattate per il piccolo schermo, pianista sofisticato, Colicchio lavora molto per immagini nelle sue composizioni. In effetti ascolti le sue musiche e già ti sembra di vedere davanti a te un personaggio o una situazione perfettamente descritti dalle sue melodie. Tra le più recenti colonne sonore realizzate da lui, anche quelle dei film Il mio regno per una farfalla, Vicini di casa e la serie A casa tutti bene.
È lui il compositore delle musiche originali di Inimitabili, il programma in onda su Raitre ogni domenica sera alle 23.20 con Edoardo Sylos Labini. Lo abbiamo raggiunto a Milano, durante la sua tournée teatrale con Giampaolo Morelli nello spettacolo Scomode verità e 3 storie vere, che sta riscuotendo grande successo da diverso tempo.
Sergio, come definiresti l’esperienza di Inimitabili?
Pazzesca. È stato un lavoro certosino, che ho portato avanti insieme allo stesso Edoardo. Gli facevo sentire dei temi al pianoforte che ritenevo, secondo la mia sensibilità, potessero sposarsi con gli inimitabili e insieme li selezionavamo attenti a ogni dettaglio. In alcuni casi la scelta era quasi immediata. Nella prossima puntata, per esempio, c’è un punto particolarmente doloroso della vita di Marinetti, in cui serviva una musica drammatica: ero convinto di uno in particolare, che ho fatto ascoltare prima di tutte le opzioni a Edoardo. Non le ha nemmeno volute sentire le altre.
Si uniscono diversi generi musicali.
L’obiettivo era raccontare il personaggio, quindi evitare ogni tipo di stereotipo vincolato a contesti musicali del periodo di cui si parlava. Il pianoforte la fa sempre da padrona, ma ci sono anche dei pezzi di elettronica: occorreva che ogni melodia fosse estremamente collegata con il racconto di Edoardo. Sono frammenti molto brevi, in cui la dimensione sonora giustifica e asseconda ciò che il narratore dice, come una vera colonna sonora più che come sottofondo. Un lavoro teatrale e televisivo allo stesso tempo: estremamente stimolante.
La sigla ha una vocazione imponente, come nasce?
È un brano di cui sono molto orgoglioso, perché ha un carattere risorgimentale, molto di impatto. Come lo è tutta la trasmissione, documentaristica ma con una valenza teatrale inedita. Occorreva una sigla che rappresentasse la grandiosità di certi personaggi.
Non c’è stata un’influenza dalla musica più o meno notoriamente preferita da questi Inimitabili o, per esempio, dalla colonna sonora di Don Camillo, nel caso di Guareschi?
Cerco sempre di emanciparmi da quello che già esiste: poteva esserci forte un riferimento alla splendida colonna sonora di quel film, ma ci siamo detti di non prenderla proprio in considerazione, per permettere alla musica di raccontare nel valore assoluto ciò che stava succedendo. L’ho fatto anche in quel caso, alternando i momenti in cui la vita sorride al protagonista e altri più dolorosi.
L’idea insomma è che ciascuno di noi abbia frammenti di vita in cui indossa meglio una musica piuttosto che un’altra. Potendo scegliere tra i musicisti pop contemporanei, chi affiancheresti a questi Inimitabili?
Sono personaggi piuttosto complessi. Credo ci siano più riferimenti a direttori d’orchestra e compositori che non musicisti rock o pop, che hanno di solito uno stile di vita avulsa dalla musica stessa. Se penso al grande Maestro Pollini, da poco scomparso, penso già a un musicista più vicino a certi protagonisti: anche lui come loro ha vissuto un rapporto totalizzante con la propria arte.
In che senso?
Mazzini si è accompagnato per tutta la vita con le sue idee, sin da quando era ragazzino. Pollini, alla stessa maniera, a 18 anni vinse il premio Chopin, il più prestigioso che potesse raggiungere, e successivamente si è ritirato per due anni con l’obiettivo di migliorare. Questo è un modo di interpretare la propria vita che difficilmente vedo nei musicisti pop di oggi.
Qual è il problema maggiore della musica pop odierna?
I musicisti veri vivono un rapporto quasi ancestrale col proprio strumento: non c’è bisogno di foto o reality. Oggi invece la musica si mostra più che ascoltarla, e ha un’immagine molto immediata, con uno tsunami di parole che non lascia granché, perché non c’è dietro molto studio, non c’è ricerca. Oggi la musica viene giudicata in base al numero di followers e artisti come Bollani, Fossati o Capossela funzionano meno sulle piattaforme: è incredibile ma è così.
Che peso ha la ricerca nella tua vita?
Essenziale: quando chiudo la porta del mio studio, il mondo sparisce. È la mia personale caverna in cui posso scrivere e studiare senza preoccuparmi di nulla.
Theodor Adorno distingueva tra la musica seria e quella popolare. Oggi quella musica pop di cui parlava lui è diventata quella seria?
Può darsi, anche se la distinzione tra musica popolare e musica colta non c’è sempre stata e per questo non ne faccio. Per almeno due secoli, ‘700 e ‘800, ciò che oggi viene considerato colto, la musica d’opera, era popolare. La platea era nella disponibilità del popolo che si portava da mangiare da casa e le panche su cui sedersi. Oggi invece l’opera viene vista come un’arte elitaria: non solo per i prezzi dei biglietti, ma anche perché abbiamo cambiato modo di guardare all’arte. La vera differenza è tra una musica che merita di vivere di vita propria, giudicabile come prodotto artistico, e una musica scritta come riempimento, come bacino per prendere brani che servono a giustificare qualcos’altro.
Se dovessi fare una colonna sonora sul momento attuale che stiamo vivendo, che atmosfera avrebbe quella musica?
Un senso di attesa, persino ansiogeno: anche la creatività non è padrona del mondo, c’è piuttosto una ripetizione di cose già viste, dal punto di vista artistico. Quindi oggi lo descriverei con una musica che potrebbe essere di attesa tra un atto e l’altro: voglio essere ottimista, anche se la paura che l’atto successivo racconti una guerra è tanta.
In che modo la musica è pericolosa, per parafrasare lo spettacolo che ti vede protagonista a teatro con Piovani?
La musica può generare così tante emozioni da essere pericolosa per un animo sensibile: questo lo diceva Fellini.
Però se uno è in un momento buio della propria vita, per esempio, ascolta quasi sempre solo musica triste, facendosi confermare e accrescere sempre la stessa emozione.
Quello è un problema del meccanismo degli algoritmi dei social che, ascoltata una canzone, poi instradano sempre sullo stesso tipo di sonorità. Oggi si sta perdendo, ahimè, il libero arbitrio nella scelta della musica. C’è pigrizia da parte di chi ascolta: ci sono opportunità intorno a noi che ignoriamo e che potrebbero rappresentarci molto di più da ciò che ci suggerisce l’algoritmo.
La possibilità di ascoltare quello che si vuole in ogni momento dovrebbe allargare gli orizzonti, invece si stanno restringendo.
Qual è la tua città identitaria?
La mia emancipazione professionale e personale è su Roma, dove ci sono arrivato ancora nemmeno trentenne e dove sono nati e cresciuti i miei figli. Ma probabilmente la mia città identitaria è sarà sempre Napoli, che ha un bagaglio culturale estremamente vario. Da napoletano amo l’arte e sono consapevole che con questa si possa vivere meglio.
Cosa è rimasto oggi dell’identità musicale napoletana?
In generale le canzoni hanno una struttura diversa dalla sinfonia, perché devono raccontare una storia in tre minuti. Moltissime canzoni classiche napoletane, invece, in tre minuti sanno raccontare una poesia al pari di una sinfonia, con una semplicità che arriva anche a chi vive la musica in modo semplice e distaccato. Nella puntata su D’Annunzio, per esempio, c’era un arrangiamento di un brano napoletano e mi sono reso conto che quella qualità musicale non è inferiore ad arie d’opera che si scrivevano nello stesso periodo.