Diresse solo sette film: tutti capolavori. È stato uno dei più grandi riformatori del cinema mondiale. Ha rivoluzionato il genere western, nel segno dell’epica di Omero
Sono trascorsi trentacinque anni dalla scomparsa di Sergio Leone e novantacinque dalla sua nascita. Il suo ricordo è ancora vivo nell’immaginario degli spettatori delle ultime generazioni e ancora di più tra quei registi che ne hanno subito il fascino.
L’arco di tempo che ci separa dalla sua prematura morte è così lungo che la visibilità del cinema di Leone sarebbe stata ristretta dopo pochi anni a un manipolo di specialisti e di storici del cinema se il suo successo e il suo mito non si fossero consolidati nel tempo a protrarne una eterna giovinezza. Leone, che debuttò con un film di genere “peplum”, “Il Colosso di Rodi”, ebbe un incredibile successo con il suo secondo film, “Per un pugno di dollari”, che inaugurava la cosiddetta “Trilogia del dollaro”, incassando nel 1964 la stratosferica cifra di 3.182.833.000 lire. Oggi sarebbero circa 70 milioni di euro, una cifra che pone questo film al terzo posto assoluto tra i successi di tutti i tempi del cinema italiano. La filmografia di Leone comprende solo sette titoli che, al confronto con la prolifica produzione di altri autori di film western come John Ford, Howard Hawks, Raoul Walsh, George Stevens, Fred Zinnemann, Robert Aldrich, risultano un numero davvero esiguo. Eppure la sua opera ha inciso così profondamente sulle sorti del western da assumere il ruolo di pietra di paragone di un intero genere cinematografico. L’uscita sugli schermi di “Per un pugno di dollari” cambiò radicalmente i contenuti e la forma, talvolta un po’ arrangiata, del cosiddetto filone “spaghetti western”. Questo successo clamoroso in realtà fu costruito su basi estremamente solide che in primo luogo risaltano per la qualità dello stile e le innovazioni del linguaggio. Con la rivalutazione dei film di genere da parte della critica e degli storici del cinema a partire dagli anni Settanta, si è affermata anche una diversa considerazione per l’opera di Leone.
L’allontanamento dal prototipo del western americano di John Ford è confermato dal grande regista romano respingendo l’idealismo romantico che aleggiava sui “pistoleri” dei maestri di Hollywood. Leone ha sempre messo in evidenza la sua diversità dal cinema di Ford affermando che i personaggi di quest’ultimo quando aprono la finestra ammirano un paesaggio meraviglioso che prelude a un futuro pieno di felicità. I suoi invece, aprendo la stessa finestra, hanno solo paura di ricevere una pallottola in mezzo agli occhi. Occorre dunque riflettere sulle variazioni che i generi cinematografici più famosi come il western possono subire attraverso la rimodulazione che un autore può ottenere lavorando sugli elementi costitutivi di un linguaggio cinematografico specifico. Da “Per un pugno di dollari” a “Il Buono, il Brutto, il Cattivo”, che conclude la “Trilogia del dollaro”, Leone mette in discussione gli stilèmi del genere con una operazione che non è così complessa come appare ad una prima analisi. Per il primo film, “Per un pugno di dollari” del 1964, Leone subisce il fascino di una pellicola di Akira Kurosawa, “Yojimbo”. Ciò che lo incuriosiva, oltre alla straordinaria fattura del film, era il fatto che il grande regista giapponese avesse ricavato il soggetto da un racconto noir americano di Dashell Hammett ambientato negli anni Venti, “Red Harvest”. Per questa storia, adattata ai samurai, sarebbe stato assai interessante un ritorno in America attraverso un western. Vi era però il rischio del gioco calligrafico che spesso ha origine da un divertissement.
Ma Leone aveva intuito che accostando i suoi personaggi allo spirito dei poemi omerici avrebbe raggiunto risultati di grande originalità nel modulo narrativo. Il protagonista di “Per un pugno di dollari”, Joe lo Straniero, interpretato da un sorprendente Clint Eastwood, è un personaggio dalle caratteristiche mitiche che scende dal nulla per schierarsi prima con l’una e poi con l’altra fazione in lotta per il predominio nel misero villaggio messicano in cui è ambientata la vicenda del film. Per Leone il più grande scrittore western è Omero: Achille, Aiace, Agamennone, sono gli archetipi dei cowboys di ieri, perché questi ultimi sono autonomi, mitici, affidano la loro forza, la loro fortuna all’attimo fuggente della estrazione di una pistola. Ed è questo il caso di Joe lo Straniero, che somiglia all’Arcangelo Gabriele, calato sulla terra a sistemare i conti in sospeso tra due famiglie di banditi rivali e che, con lo stesso alone di mistero con cui era apparso, svanisce. Questi elementi del racconto sono pure invenzioni d’autore e approdano a risultati di grande originalità. È evidente che il linguaggio del cinema di genere è nobilitato da Leone, svelando la complessità e la originalità del racconto popolare destinato a un pubblico di diversa estrazione sociale e culturale. Ed è questa la grande forza dei soggetti dei film di genere: quella di parlare il linguaggio più vicino alla sensibilità dello spettatore, dal più giovane all’adulto. “Per un pugno di dollari” è il primo film che ribalta la tradizione del western americano. Il cinema per Leone deve riprodurre la realtà della ingenuità, ma in “Per un pugno di dollari” si nota anche che il suo autore ha saputo coniugare il mito, la favola, alla tradizione. Partendo dal Teatro Nō giapponese è arrivato alla Commedia dell’Arte italiana, perché il protagonista è un “pistolero” che si vende a due bande rivali senza che queste lo sappiano. Un tema trattato in una delle commedie più celebri di Carlo Goldoni, “Arlecchino servitore di due padroni”.
Nel secondo film della “Trilogia del dollaro”, “Per qualche dollaro in più”, vi è il raddoppio dei personaggi protagonisti. Clint Eastwood è affiancato da Lee Van Cleef. Entrambi interpretano la parte di due spietati bounty killers e Gian Maria Volontè che era stato Ramonnel film precedente, qui è Indio, il capo paranoico e sadico di un gruppo di banditi. Il suo ruolo gioca di sponda con i due protagonisti. Non vi sono sostanziali differenze tra le prime due opere se non nei mezzi adoperati. La vena ironica è più evidente nei dialoghi aforistici. La vicenda del film è punteggiata da duelli, sparatorie, pestaggi, che tuttavia al confronto con “Per un pugno di dollari”, risultano meno violenti. La spiegazione è nell’ulteriore progresso compiuto dal linguaggio di Leone verso un iperrealismo cinico e beffardo. L’uso dei tagli in primo piano delle inquadrature o addirittura il dettaglio delle riprese sui volti dei suoi attori rivela l’attenzione di Leone per l’elemento caratteriale da far emergere sullo schermo. Un volto per il grande regista romano è come un paesaggio da scoprire. Si delinea sullo schermo con una evidenza scultorea che ricorda la statuaria romana. Leone ha osservato attentamente i ritratti romani d’epoca imperiale nei musei e riporta nelle sue inquadrature i loro valori plastici. Scruta con la macchina da presa i lineamenti, gli occhi dei suoi attori per rivelare l’anima dei personaggi. “Per qualche dollaro in più” segna anche un avanzamento nell’uso del montaggio. Infatti vi sono alcune azioni simultanee che risultano di grande effetto, come per esempio la scena della rapina alla Banca di El Paso. Da tre punti di vista diversi il Monco, Mortimer e la banda di Indio osservano la parete della banca dietro alla quale è conservata la cassaforte. Indio si appresta a svaligiarla in compagnia dei suoi “bravi”, mentre il Monco e Mortimer studiano con un binocolo i movimenti esterni alla banca, incrociando i reciproci sguardi. C’è un sapiente dosaggio di tempi e azioni combinate che produce una attesa interrotta dalla esplosione della dinamite sul muro della banca, in corrispondenza della cassaforte e la sua conseguente cattura al lazo. Nell’ultimo capitolo della “Trilogia del dollaro”, “Il Buono, il Brutto, il Cattivo”, Leone rivolge il suo interesse alla storia americana e allarga il campo d’azione dei tre protagonisti su tutto il territorio in cui si svolge la Guerra di Secessione. Il film racconta le imprese del “Biondo” (Clint Eastwood), di “Tuco” (Eli Wallach) e di “Sentenza” (Lee Van Cleef), impegnati nella ricerca di un tesoro. L’etica del profitto è l’unica ragione che anima i tre protagonisti. Partecipano alla guerra per una pura coincidenza e non sono motivati dal patriottismo. Il West di Leone è un mondo irrimediabilmente condannato alla violenza, al sopruso e – nei territori di frontiera, dove ancora non è arrivata la guerra – all’immobilismo, a una giustizia arbitraria in cui la legge è dettata da chi usa meglio la pistola.
Leone descrive questo mondo così spietato come un luogo picaresco, dove i tre protagonisti rivelano tratti sorprendentemente mitici, senza abbandonare il lato ironico, soprattutto per quanto riguarda i personaggi del “Biondo” e di “Tuco”. “Sentenza” è la degenerazione di un malvagio, che uccide con efferatezza. Diversamente dagli altri due protagonisti non ha spunti ironici, ma l’iperbolica crudeltà delle sue azioni finisce per suscitare nello spettatore un effetto di ironico straniamento. Con “Il Buono, il Brutto, il Cattivo” il cinema di Leone è un modello compiuto di “antiwestern”, che riforma radicalmente i contenuti dei film della tradizione americana. E infatti con le pellicole successive, “C’era una volta il West”, del 1968, e “Giù la testa”, del 1971, siamo di fronte a esempi in cui il modello del genere si è trasformato in qualcos’altro: il cinema di un autore di grande spessore. Nel primo l’epopea della Frontiera assume la cadenza di una tragedia epica. I tempi si dilatano: la macchina da presa allarga la sua focale su larghe panoramiche che scrutano un paesaggio infinito. I movimenti dei personaggi sono lenti e ricordano i gesti marziali dei samurai di Akira Kurosawa. Nel secondo Leone propone una riflessione sui temi politici della rivoluzione, citando all’inizio proprio una frase di Mao Tse Tung. L’incontro tra un bandito messicano (Rod Steiger) e un rivoluzionario irlandese (James Coburn) avviene sullo sfondo della Rivoluzione Messicana e il destino di quel rapporto è la metafora del racconto. Un mezzo per proporre la sua interpretazione del cinema politico che all’inizio degli anni Settanta era un tema molto dibattuto tra i registi del cinema italiano. Leone è persuaso che non sia affatto obbligatorio per un autore, se si parla di politica, essere seri e compassati. Anzi, l’uso di toni didascalici nuoce al messaggio politico. È una tesi che Leone propone in “Giù la testa” e che svolge in tutto il film con esiti sorprendenti, spiazzando il pubblico e la critica. “C’era una volta in America” è il testamento finale di un autore che ancora una volta rielabora autonomamente gli stilemi del cinema di genere, in questo caso del noir americano che ha illustri precedenti nell’opera di William Wellmann, John Huston, Howard Hawks. Leone li interpreta alla sua maniera consegnando uno dei capolavori più alti della cinematografia di tutti i tempi. I ricordi di un gangster in pensione, Noodles, interpretato da Robert De Niro si intrecciano in una vicenda che descrive quasi quarant’anni di storia americana. Il tema fondamentale dell’amicizia tra ragazzi che hanno come unica risorsa la strada attraversa l’epoca del Proibizionismo, il New Deal, e la contestazione del 1968. La loro vita da gangster è una straordinaria metafora della imprevedibilità del destino umano. Una riflessione che Leone compie senza il divertissement delle maschere attoriali che era già scomparso in “C’era una volta il West”. La prematura morte di Leone ha poi privato il cinema italiano di un maestro che era anche il suo garante internazionale, rappresentando al meglio la sua tradizione e la sua poliedrica creatività.