Vasari e il braccio del David, un gesto di amor di patria

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Una leggenda dice che il primo storico dell’arte, l’autore de “Le vite”, Giorgio Vasari, dieci anni prima che il figlio di Maria Salviati e del condottiero Giovanni delle Bande Nere, Cosimo I de’ Medici, andasse nel 1537 al governo della Repubblica Fiorentina, Firenze, era come di consueto nella sua genesi, sommersa da lotte intestine per accaparrarsi il potere comunale. Nel “tumulto del venerdì” del 26 aprile, durante una sollevazione popolare, qualcuno entrò a Palazzo Vecchio e in preda all’euforia vi gettò da una finestra del palazzo un tavolino di legno che finì con lo schiantarsi contro l’originale del David di Michelangelo (proprio quel David, collocato lì come simbolo di vittoria, di libertà, di emancipazione del popolo contro il dispotismo della famiglia Medici) provocandone la rottura di un braccio.

Quel gesto fu forse la conseguenza di un ‘eccesso’ di democrazia? Non lo sappiamo.  Certo è che un giovanissimo Giorgio Vasari presente in quel momento, trovò quel braccio rotto, lo prese e lo portò con sé fino a casa. Molti anni dopo, prima delle “Logge aretine” e del progetto degli “Uffizi amministrativi” del granducato di Toscana, quando la sua maturità e notorietà artistica nonché le sue doti di restauratore cominciavano ad emergere, Vasari, che amava di più le opere degli altri che le proprie, spinto da un forte sentimento di appartenenza e ammirazione nei confronti di chi lo aveva preceduto, e soprattutto di Michelangelo, intorno alla metà del ‘500, portò il braccio alla corte di Cosimo I, che come i suoi antenati era anch’egli un grande mecenate, un’amante della bellezza, e conosceva bene il potere persuasivo dell’arte.

Quel gesto, collegato alla necessità di riparare a un danno e difendere un valore del passato, ci ha permesso oggi di avere la certezza che il David, se ci troviamo a Firenze e siamo disposti a pagare il prezzo di un biglietto alla Galleria dell’Accademia in via Ricasoli 60, lo possiamo ammirare in tutta la sua interezza, la sua bellezza apollinea, la sua imponenza, o almeno sapere che ancora esiste ed è lì ad aspettare di destarci ancora quel brivido, con quel suo sguardo sicuro rivolto verso Golia.

Michelangelo ci ha messo la sua anima e il suo sangue dentro quel marmo, un marmo apparentemente inanimato, privo di vita ma intriso di amor di patria. Questo ci hanno fatto capire il Vasari e il Granduca, che anche se quella scultura rappresentava l’allegoria della gloria del popolo sui dispotici, essa è arte e l’arte è cosa di tutti.

Oggi l’Italia manca di società, manca di intellettuali, manca di amor proprio, manca di costumi, lo diceva anche Giacomo Leopardi: “Gl’italiani non hanno costumi, essi hanno delle usanze. Così tutti i popoli civili che non sono nazioni”. Anche Antonio Gramsci disse la sua: “Io sono sempre stato persuaso, che esiste un’Italia sconosciuta, che non si vede, molto diversa da quella apparente e visibile….che il distacco tra ciò che si vede e ciò che non si vede, è da noi più profondo che nelle altre nazioni civili”. Entrambi gli autori volevano il meglio per l’Italia, volevano uscire dal buio del nichilismo dove il “pessimismo della ragione” inevitabilmente li traghettava.

Cosa ci unisce allora? Noi tutti proviamo così tanta ammirazione per quel periodo florido del ‘400 che fu Vasari stesso a definire “Rinascimento” e di cui Firenze fu grande protagonista. Vogliamo forse anche noi tendere a una feconda rinascita? Se l’Italia tutta è un’opera d’arte, e qualcuno le ha fatto crollare un tavolino addosso rompendo lo stivale, facciamoci scuotere anche noi dall’amore che ha provato il nostro storico dell’arte aretino e raccogliamo quel pezzo di stivale. Salviamo anche noi il braccio del David!

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