Giampaolo Rossi: “La Rai è il motore silenzioso dell’economia culturale nazionale”

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Nel vasto e mutevole panorama dei media contemporanei, la Rai continua a ergersi come un pilastro identitario, una sorta di cerniera tra la memoria collettiva del Paese e le sue proiezioni future. Non soltanto emittente televisiva o conglomerato editoriale, ma infrastruttura culturale nazionale, la Rai rappresenta una delle poche istituzioni capaci di coniugare la funzione economica con quella simbolica, il valore industriale con la missione pubblica.

A ricordarlo, con lucidità e una visione che si direbbe sistemica, è Giampaolo Rossi, amministratore delegato dell’azienda di Viale Mazzini, intervistato da Salvatore Merlo in occasione della Festa dell’Ottimismo. “La Rai è una sorta di hub industriale centrale nella vita del nostro Paese”, ha dichiarato Rossi, “un’azienda che produce ricchezza, produce lavoro e che consente di mantenere in vita intere filiere dell’industria culturale”. Un’affermazione che, lungi dall’essere mera retorica, trova riscontro in dati e dinamiche economiche: cinema, fiction, animazione, documentari e persino l’indotto tecnico e creativo ruotano attorno al suo perno produttivo.

Il servizio pubblico, ricorda il manager, non gioca la stessa partita dei broadcaster commerciali. La sua vocazione non è soltanto quella dell’audience, ma quella della rappresentazione e della coesione sociale. La Rai, osserva Rossi, “è l’azienda che con le minori risorse pubbliche in Europa produce la maggior quantità di contenuti esportabili a livello europeo”. Un paradosso virtuoso ma anche un campanello d’allarme: negli ultimi dieci anni, l’assenza di una rivalutazione delle risorse al netto dell’inflazione ha eroso progressivamente le possibilità operative del gruppo, oggi chiamato a sostenere un intero ecosistema culturale con mezzi sempre più limitati.

È in questa contraddizione che si inscrive la sfida del presente: un’azienda che mantiene viva l’industria audiovisiva nazionale ma che, al tempo stesso, fatica ad avere gli strumenti adeguati per farlo. Rossi, consapevole della portata storica di tale squilibrio, rilancia: “Il tentativo è quello di provare a raccontare all’Italia che la Rai è un’industria fondamentale, non è un’azienda in sé, è un’azienda che consente il racconto della nostra nazione”.

E se il racconto è anche misura di ascolto, i dati recenti sembrano confortare la direzione intrapresa. Tra l’autunno 2024 e la primavera 2025, la Rai ha registrato audience che non toccava da quindici anni, a testimonianza di un rinnovato patto con il pubblico. I fisiologici cali estivi non bastano, sottolinea Rossi, a decretare la “morte della Rai”, un refrain giornalistico tanto suggestivo quanto infondato.
Nel confronto con i competitor, l’amministratore delegato sceglie la via istituzionale: niente polemiche con Mediaset o con Pier Silvio Berlusconi, nel rispetto di quella funzione di equilibrio che il servizio pubblico è chiamato a garantire. La Rai, infatti, non è solo produttrice di contenuti, ma custode di un sistema informativo pluralista, come attestano i dati Agcom e dell’Osservatorio di Pavia, che la indicano come la Rai “più plurale” degli ultimi anni.

In un tempo in cui la comunicazione si fa frammentata e l’informazione rischia di essere polarizzata, la Rai continua a incarnare l’idea di una comunità che si racconta a sé stessa. Un racconto collettivo, fragile e prezioso, che è insieme specchio e officina del Paese.
In fondo, la Rai non è semplicemente un’azienda: è la trama viva attraverso cui l’Italia riconosce e rinnova la propria narrazione.

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