Lo scempio degli alberi nella Roma della giunta Gualtieri

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Lo scempio del Bosco Sacro sul Mausoleo di Augusto (foto da Facebook)

Roma si sta trasformando in un deserto. Che sia la bulimia di finanziamenti del PNRR per la “ripiantumazione” o fantomatiche (ma non improbabili) pressioni per far strada ai campi 5G e 6G disturbati da foglie e legname, che sia semplicemente l’esigenza di un’amministrazione di dare un… taglio netto alle spese di manutenzione, risolvendo il problema alla radice, o anche una non troppo celata (quantomeno fra i supporter del sindaco Gualtieri) resa dei conti con le vestigia fasciste e monarchiche, a Roma oramai si sente più il suono della motosega che dei clacson.

Sta di fatto che negli ultimi mesi la Città Eterna, come del resto quasi tutti centri urbani d’Italia, grandi o piccoli, a guida sinistra o destra, sta abbattendo alberi come se non ci fosse un domani. Con l’aggravante che a Roma le vittime di questo feticismo della motosega sono spesso illustri. Veri e propri monumenti viventi, abbattuti dietro inappellabili sentenze e senza alcuna dimostrazione che si siano trovate strade alternative al taglio.

Così il 13 ottobre è finito per sempre lo splendore dorato del ginko biloba di Villa Borghese, nobilissimo albero giapponese che aveva da poco spento 103 candeline. Il motivo? Non è chiaro. Ammalato? Pericolante? Gli stessi fumosi pretesti addotti per lo scempio indicibile del Bosco Sacro dell’Augusteo, piantato con gusto filologico durante i lavori di ripristino del mausoleo del fondatore dell’Impero Romano, dopo che per secoli era stato abbandonato e impiegato per scopi molto poco rispettosi per il luogo nel quale il Nume di Ottaviano Augusto aleggia, perfino trasformato in sala teatrale. Ma quei lavori sono stati effettuati in previsione del Bimillenario augusteo, nel 1937, epoca sospetta, sospettissima. E dunque le motoseghe sono arrivate fra gli applausi di chi ha goduto nel vedere fascistissimi cipressi secolari finire a testa in giù.

A sentire la soprintendenza capitolina lo scempio aveva lo scopo di “rendere fruibile al pubblico l’area a verde del Mausoleo di Augusto”. Bell’ossimoro: distruggere un bosco per far camminare i turisti in un’“area verde”. Al posto del Bosco Sacro, che – ricordiamolo – venne piantato per ricostruire quello che originariamente adornava la tomba dell’Imperatore – sarebbe prevista la realizzazione di “un percorso anulare in terra stabilizzata, con degli elementi di protezione e guida che possano garantirne l’attraversamento in sicurezza”. Insomma, una tomba che diventa un luogo di passeggiata. Così magari qualche zetatiellino può anche portare il cagnetto a fare i suoi bisogni sul prato…

La grottesca scusa trasforma un mausoleo la cui importanza è nel suo complesso, non certo per dettagli architettonici da ammirare da vicino, visto che nel corso dei secoli è stato spogliato quasi del tutto, in una specie di tumulo che pare uscito da un bombardamento, una rovina non più viva, al contrario di com’era stato invece pensato dagli archeologi e dagli urbanisti del Ventennio.

E assieme all’ormai ex Bosco Sacro anche lecci e pini di Villa Borghese e del Pincio, pressoché l’intero patrimonio arboreo di Piazza dei Cinquecento, trasformata in una distesa abbacinante in cui dei patetici alberelli secchi in cassoni di legno avrebbero dovuto sostituire gli alberi massacrati, piantati decenni fa per dare ombra ai viaggiatori che passavano per la Stazione Termini.

Le due foglie di fico dietro le quali si nasconde l’amministrazione capitolina (ma anche quelle dei municipi, non da meno nell’abbattimento selvaggio) è ovviamente il “tanto li ripiantiamo” e il “erano ammalati”. La prima si commenta da sola, considerando che si stanno eliminando piante pluridecennali per sostituirli con alberelli stentati che – in assenza totale di manutenzione – hanno solo arricchito gli appaltatori e sono quasi tutti secchi, come a Via delle Fornaci, vicino San Pietro. Peraltro, se anche queste povere pianticelle potessero crescere, impiegherebbero decenni a restituire ai romani l’ombra e il verde che i loro sfortunati predecessori donavano.

Sul fatto che le piante fossero malate o pericolanti, si tratta di una pezza peggiore del buco. Basti ricordare che gli storici cipressi di Bolgheri sono stati oggetto di più d’una operazione per salvarne quanti più possibile dal cancro del cipresso e dai parassiti, clonando quelli che – nonostante ogni cura – risultavano condannati. Ma prima d’arrivare al taglio viene sempre esperita ogni altra possibilità. Perché – forse al Campidoglio non lo sanno? – le piante possono essere curate dalle malattie con opportuni medicinali, messe in sicurezza con strutture contenitive e raddrizzate con tutori e tiranti (provate a visitare un giardino pubblico in Giappone e resterete stupiti su come rami dalla geometria improbabile siano stati puntellati con abnegazione e cura maniacale dal personale di manutenzione. Del resto, in Giappone, non è raro vedere giardinieri spuntare l’erba delle aiuole con forbici da barbiere…).

Ma purtroppo per l’albero giapponese del Pincio, è stato piantato a Roma, non a Kyoto. E il vecchio palindromo “Roma-Amor” è stato da lungo tempo dimenticato. A Roma, l’amore è stato sostituito dalle smanie da archistar, dalla distopia della “città dei 15 minuti”, e dalle nuove teorie sull’arredo urbano in cui le aiuole diventano selve d’erbacce “per gli insetti impollinatori” (e così scopriamo che il cittadino che vuol vedere un’aiuola con le rose conta meno di sirfidi e curculionidi…). Dalle foto di denuncia sui social, per esempio della giornalista RAI Eugenia Nante, un tenace pollone del ginko di Villa Borghese sembra essere sopravvissuto alla motosega. Se una volta tanto l’inefficienza e il pressappochismo tipico della gestione pubblica romana faranno sì che il ceppo si salvi e non venga sradicato, forse fra cento anni, la chioma d’oro di quell’albero tornerà a splendere.

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