C’è modo e modo di guardare al continente africano. Questione, innanzitutto, di punti di vista. Perché chi si pone dalla visuale del politicamente corretto scorge poco o nulla di quell’immensa distesa tagliata dall’equatore. Soltanto quei frammenti utili ad azzerare la propria dimensione culturale. Talvolta c’è invece chi inverte la rotta e fa la traversata al contrario: alla ricerca di miti, tradizioni e impersonalità. Ovvero, della propria identità. Al centro di Tramonto a Addis (Altaforte, pp. 224, euro 20), ultimo romanzo di Emanuele Fusi, c’è la tensione esistenziale del viaggiare. «Marco aveva capito poco della vita nel suo complesso fino ad allora. Ma qualcosa aveva afferrato su se stesso: doveva iniziare ad accettare il suo lato oscuro, le sue contraddizioni. Alla soglia dei quarantotto anni, non poteva più perdere tempo…».
La vicenda di Marco, il protagonista, s’intreccia a quella della bella Afrat ed è il pretesto per affrontare il tema dello sgretolarsi delle certezze di un Occidente fin troppo aggrappato al mito del progressismo ad ogni costo. Una prospettiva inappagante. Di plastica. Da rigettare. «Tutte le utopie su cui ha edificato il suo castello di carte si rivelano dei veri e propri disastri: le concezioni idealizzate di eguaglianza, di accoglienza, di pacifismo hanno generato mostri che hanno iniziato a divorarci – scrive nella prefazione Gabriele Adinolfi – Dall’altra parte dello specchio c’è l’Africa, che non crede nei capricci buonisti e progressisti di cui sono imbevuti gli eterni bambocci occidentali dopo che hanno assistito indolenti all’uccisione del padre».















