“Poi li ripiantiamo”. Questo è il refrain che tanti assessori ripetono alla gente inferocita nelle città italiane. Da nord a sud, da Torino a Foggia, da Firenze a Bologna a Roma, perfino nelle piccole realtà, come sul Monte Grappa, gli alberi cadono a centinaia, a migliaia sotto le motoseghe delle amministrazioni comunali.
Un fenomeno iniziato in sordina, con la solita dinamica della “finestra di Overton”, per poi montare sempre di più. E infine diventare la strage che oggi continua sotto gli occhi di tutti e senza che nessuno riesca a intervenire.
Da alcuni anni, infatti, in diversi comuni d’Italia s’è iniziato a effettuare potature delle piante d’arredo urbano, potature drastiche, effettuate col metodo della cosiddetta “capitozzatura”, che conduce spesso e volentieri la pianta alla morte. Giù allora proteste di ecologisti e comitati di quartiere, insieme a quelle delle organizzazioni contro l’inquinamento elettromagnetico. Una saldatura fra movimenti determinata dal fatto che secondo queste ultime, gli alberi da arredo urbano costituiscono una barriera naturale ai campi 5G, bloccando così i progetti di “città smart” e i lucrosi affari che ruotano attorno all’“internet delle cose”. Nonostante il tentativo dei soliti debunker un tanto ad articolo di derubricarlo come “teoria del complotto”, è vero – e scientificamente dimostrabile – che gli alberi, in particolare le chiome più dense e umide, possono attenuare i segnali radio, incluse le frequenze 5G, perché il fogliame e l’acqua presente nelle foglie assorbono parte delle onde elettromagnetiche. Questo effetto è più pronunciato per le frequenze più alte del 5G (onde millimetriche, sopra i 24 GHz), che hanno una portata limitata e sono più sensibili a ostacoli fisici come foglie, rami o edifici.
Studi tecnici, come quelli condotti da enti di ricerca sulle telecomunicazioni, confermano che la vegetazione può ridurre la potenza del segnale 5G. L’attenuazione dipende da fattori come la densità della chioma, lo spessore del fogliame e la distanza tra l’antenna e il ricevitore. In ogni caso, in ambienti urbani, dove il 5G si basa su microcelle posizionate a bassa altezza, gli alberi possono creare zone d’ombra nei segnali.
Ma non c’è solo questo interesse dietro la strage di alberi.
Ad armare le motoseghe dei comuni è la scusa che le piante, spesso e volentieri messe a dimora subito dopo la guerra o durante le espansioni urbanistiche d’epoca umbertina e fascista, sarebbero oggi “vecchie” e pertanto “malate” o “pericolose”.
La psicosi abilmente agitata dai media degli “eventi climatici estremi” (in realtà del tutto destituita di fondamento, dati alla mano) aiuta questa narrativa, sostenendo che gli incidenti e i danni provocati da rami spezzati e piante divelte dal maltempo sono causati dalla vetustà degli alberi. Solo sostituendo le piante vecchie con alberelli nuovi si potrebbe risolvere il problema, secondo le amministrazioni comunali.
La realtà invece è che con questi interventi una tantum i comuni s’assicurano di non dover intervenire con l’ordinaria manutenzione – una voce di spesa costosa e che non consente “tagli di nastro” a scopo foto social – contemporaneamente affidando ad appaltatori l’abbattimento e lo smaltimento degli alberi, magari pagandolo coi fondi del PNRR arrivati a pioggia.
Fondi che servono poi a “rigenerare” le nostre città in senso “green”: tramvie protette, piste ciclabili e soprattutto le maledette strade multimodali, ovvero sottratte al traffico privato per diventare pedonali e piene di “aiuole per impollinatori” (leggi: erbacce non potate a beneficio degli insetti. Costano di meno dei fiori, non le devi manutenere e abituano il popolo a vivere umilmente. Stranamente la “gente che conta” preferisce avere i giardini all’italiana davanti alle finestre, però…).
Per fare spazio ai cantieri, gli alberi devono essere abbattuti, senza pietà. E comunque sempre coi fondi del PNRR si potranno poi rimpiazzare le piante tagliate con centinaia di alberelli il cui destino però spesso e volentieri è a mala pena sopravvivere qualche settimana all’inaugurazione da parte di sindaci e assessori, per poi essere lasciati a seccare o in balia del vandalismo.
In ogni caso, come fa notare l’agronomo Daniele Lanzi in una terribile intervista a Margherita Loy su “La Verità” dello scorso 23 agosto, piantare oggi un alberello di uno, due anni al posto di un colosso di cinquanta, darà un albero di pari volume fra cinquant’anni: “per compensare l’abbattimento di un albero di 80 anni occorrerebbero almeno 3.000 alberelli di circonferenza non inferiore ai 14 cm affinché svolgano una buona funzione fotosintetica”.
Una denuncia per tabulas, che non ammette repliche, ma che non ha ottenuto un solo “scusate” dai comuni sotto accusa.
C’è infine l’ultima delle “teorie del complotto” (quindi semplicemente qualcosa che sarà verità riconosciuta fra sei mesi) che tiene banco sui social, quella che la strage di alberi ha una funzione precisa nella religione green: mettere le città sempre più in balia di bolle di calore roventi, senza ombra (quest’estate abbiamo avuto la beffa degli alberelli in vaso spacciati dal comune di Bologna per “parasole”: excusatio non petita…). Un sistema per dare guazza alla narrativa del “riscaldamento globale” per il quale sono necessarie, non rinviabili e obbligatori per tutte sempre nuovi sacrifici, nuove rinunce, nuovi tagli al nostro stile di vita e alle nostre libertà: più ZTL, meno libertà di spostamento, meno diritto a riscaldarsi in inverno e all’aria condizionata d’estate…
Tanti interessi, alcuni più reali, altri più ideologici, concorrono a condannare a morte centinaia di migliaia di alberi che avevano allietato le nostre piazze e strade, che davano ombra a palazzi, parchi e scuole, ospitavano uccelli e tenevano fresche strade e automobili parcheggiate. Ma non vi preoccupate: li ripianteranno. E fra 80-100 anni li avremo tali e quali a quelli che oggi hanno fatto tagliare. Basta aspettare, no?