Rituali pasquali nell’Aspromonte greco

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Vivono anche in tempo di pandemia gli ancestrali riti pasquali che si celebrano della Calabria greca. Alcuni in forma sommessa, altri invece continuano in tutta la loro integrità a scandire uno dei momenti più importanti del calendario grecanico: la Pasqua. La consacrazione del rinnovamento stagionale è il periodo dell’anno in cui le comunità grecaniche della Calabria meridionale e la natura trovano un punto di incontro. La Primavera infatti è sempre stata vissuta nell’Aspromonte greco come momento di riflessione sul cambiamento della realtà, divenendo nel tempo metafora del ciclo della vita dell’uomo, del lavoro dei campi e persino delle trasmutazioni sacrali delle principali entità divine. Nella Calabria Greca, questo arco cronologico acquista toni rituali, che affondano le radici direttamente nelle ere in cui l’uomo sperimentò il rapporto con il sacro. Qui, più che altrove, la Primavera è il pretesto per perpetuare tradizioni antichissime, in cui gli originari elementi pagani sopravvivono nei riti cristiani della Settimana Santa. Ricorre ancora nei giorni di Quaresima l’uso di cuocere i cuddhuraci, dal greco ciambella, decorare dolci con le uova e praticare riti per assicurare la fecondità, spargendo semi di grano o segnando croci sul terreno da coltivare. La gran parte dei riti pasquali presta particolare attenzione alla simbologia femminile, sottintesa nel cibo, che acquista così valore simbolico, capace di veicolare immagine e significati. Morfologie femminili sono riprodotte in un particolare tipo di formaggio, detto musulupa, e sui dolci chiamati ‘ngute, termine grecanico che indica l’uovo, con cui questo dolce viene decorato, in allusione alla fertilità e della rinascita. A Samo per la vigilia di Pasqua alcune famiglie preparano ancora le pupe, bamboline di pasta del pane, o di strati di fichi secchi. Riproducono una immagine femminile anche i manichini vegetali portati in processione a Bova la Domenica delle Palme, simbolo delle radici agro-pastorale di questo borgo ma anche della sua rinascita, partecipe ogni anno allo svolgimento del rito, con spontanea devozione religiosa. Una settimana prima della ricorrenza che celebra l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, famiglie e gruppi di persone si riuniscono insieme per intrecciare figure femminili su manichini fatti di steli di canna, saldati ad un’asta, fusto della canna stessa. Le bacchette sottili, vengono quindi avvolte da un ricamo di foglie di ulivo, chiamate steddhe. Ancorate al manichino, compongono progressivamente la gonna, il busto, le braccia e la testa, in un continuo ripetersi di curve e sagome rotondeggianti. Poi, coi fiori si aggiungono collane, orecchini, orli e acconciature. Il carattere dimensionale di queste figure le divide in madri e figlie: insieme fianco a fianco sfileranno in processione per essere benedette con l’acqua santa davanti al sagrato del Santuario di San Leo. Nel rito benedicente, il sacerdote non manca di dare significato cristiano alla processione, richiamando quanti nella casa di Dio, si ostinano a indicare le Palme come Persefoni, in allusione al mito della dea del grano, Demetra, a cui Ade rapì la figlia, Kore, facendo così calare sulla terra l’inverno. Il rito che si ripete annualmente a Bova, è realmente carico di rimandi archetipi, soprattutto quando al termine della liturgia, queste dame vengono smembrate dai fedeli, che fanno incetta di rametti da conservare per la benedizione delle case o utilizzare come strumento per togliere il malocchio. Chiunque abbia avuto modo di partecipare alla processione di Bova rimane incantato della rievocazione mitica del passato: incarnazione della gioia di Kore, nel riportare la primavera durante i mesi che passava sulla terra in compagnia della madre. Questo mito a Bova echeggia più forte dopo il ritrovamento, nelle alture circostanti, di una statuetta fittile di Kore con in mano una colomba, databile alla metà del VI secolo a.C.. La statua giaceva, in un deposito rituale di fondazione di un edificio, posta a faccia in giù insieme a quattro brocche, indispensabili a spargere la libagione di un rito destinato alla divinità ctonia. Questi antichi culti sono stati trasmessi fino ai giorni nostri assorbiti dal Cristianesimo, il quale ha trasmutato i concetti originari nell’immagine della morte e della resurrezione di Cristo e in quella della Madonna che allatta in Bambino, cui significato teologico allude al compimento eucaristico e al ruolo di Maria come Madre del creato. La processione delle Palme, detta anche delle Pupazze trova, infatti, comuni denominatori con altre manifestazioni etnografiche dell’Italia meridionale e della penisola greca, praticate durante il periodo pasquale, quando il riferimento alla rinascita primaverile, alla fertilità e alla condizione nubile delle ragazze emerge con maggiore evidenza nel bagaglio del sapere delle comunità contadine, le più inclini a perpetuare antichi rituali legati alla terra e ai suoi cicli produttivi.

Significativo, il confronto tra l’immagine delle Palme bovesi e la raffigurazione della Quaresima nel mondo bizantino, detta Kyrà Sarakostì (Signora Quaresima), riprodotta in Calabria in statuette lignee nelle sembianze di una fanciulla, e in Grecia in pasta di pane, con sette piedi che fungono da calendario liturgico per ricordare i giorni di digiuno. È questo forse l’esempio più evidente di come gli antichi culti propiziatori si siano mantenuti intatti per secoli, seguendo medesime iconografie, trasmutando nei rituali cristiani simbologie arcaiche. Allo stesso tempo le similitudini che la Kyrà Sarakostì condivide con alcuni manufatti etnografici grecanici dimostrano, in parallelo agli studi linguistici, della comune origine culturale di queste terre e dei continui e profondi rapporti tra le due sponde dello Jonio, nel corso del tempo.

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