Quando i re accettavano di bruciare per risorgere
Quando gli strumenti di misura erano più deboli del tempo che scorre e questo era segnato solo dalla marcatura di luce e ombra o dallo scorrere della polvere e dell’acqua, i giorni si distinguevano dalle opere e le stagioni andavano celebrate per essere riconosciute. Il tempo, non ancora astratto, aveva assoluto bisogno di un abito per essere vissuto: così i calendari antichi traboccavano di riti pubblici. È da queste stagioni festive, sacre a Dioniso in Grecia e a Saturno tra i latini, di nuovo felici per i campi e propizie per i giochi, che nasce quel tempo pingue, trionfo del pieno sull’orrore del vuoto, che da mille anni e più chiamiamo Carnevale. Un tempo di fatto, di cui è certa la fine, per esplosione, nella cenere, e di cui l’inizio è incerto, variamente segnato da ogni comunità al sopraggiungere dell’abbondanza: dei doni dei Magi nell’Epifania, del corpo del maiale a S. Antonio, della luce di cera della Candelora o di centinaia di altri umori del tempo dell’anno che nasce. Un tempo fluido, per il quale anche il nome fluttua. Nel 965, tra le carte fiscali di Subiaco, appare il primo carnelevare come scadenza ecclesiastica che già ha a che fare con il digiuno di Quaresima. Un paio di secoli dopo ecco nei documenti apostolici un ludus carnelevarii e, in un archivio londinese, l’espressione carnelevaria per i giochi dei ragazzi: la parola, quando alla metà del XIII secolo giunge negli statuti cittadini, si può dire assestata nella cultura ufficiale per identificare la festa. Molti restano convinti che carnevale e carnascialesco siano l’esito linguistico dell’uso di lungo periodo delle espressioni carmen arvale e carmen saliare ben prima che la Chiesa, pasticciando con i suoni e con il latino, faccia del carnem levare il nome dell’addio ai bagordi prima della penitenza. E resiste anche chi nel nome carnevale legge currus navalis, e poi car navalis, con qualche suggestione egizia e il richiamo persistente al carro che sfila carico, tanto in passato quanto oggi. L’impressione è che la radice della festa sia più salda del nome.
La radice sommersa è riaffiorata in tante diverse terre d’Europa sottoforma di manifestazioni stanziali e itineranti di comunità festanti, di agricoltori e artigiani a riposo, di giullari, danzatori, cantori, fantini, giostranti e in una selva di maschere. L’inestinguibile emersione di una potenza dionisiaca che ha fertilizzato l’Europa cristiana. Non è esistito un unico Carnevale. Un consolidato schema fa del Carnevale il periodo di licenza che l’autorità ecclesiastica concedeva prima della penitenza: la lotta tra il Carnevale e la Quaresima Pieter Brueghel la consegna all’immaginario collettivo enfatizzando la sfida tra il carro ebbro – una botte che sarà battello, carica di gozzoviglie – e la zattera povera della vecchia Quaresima che strofina acciughe sul legno secco. Una comunità in cui senza sosta si affrontano il lavoro e la beffa, la carità e il furto, l’erotismo e la pudicizia. Un modello semplice e in buona parte calzante, ma rigido e che troppo risente del meccanismo moderno che confonde la libertà con la liberazione delle pulsioni individuali e collettive dal repressivo controllo religioso. Un’ebbrezza incontrollata e un caos sfrenato, riportato all’ordine costituito dal calendario liturgico. La maschera sarebbe solo il mezzo dell’infingimento: anche qui una prospettiva troppo contemporanea sovrappone allo strumento ludico la complessità di significati di una coscienza che libera l’uno, nessuno e centomila da una sovrastruttura. Altro schema fortunato per guardare il Carnevale è quello socio-politico: come racconta Leroy Ladurie, il mondo alla rovescia non è solo emotivo: nel Carnevale di Romans del 1580, nel cuore del Delfinato, tre giorni di festa diventano lo spazio della ribellione politica. Affiora la suggestione anacronistica della rivoluzione che fa leva sulla libertà appena respirata da un popolo eccitato, con poca coscienza di classe ma tanti appetiti. L’ordine costituito anche qui ritorna, sottoforma di potere feudale. Il re della festa e il re ribelle, in entrambi gli schemi risultano perdenti e bruciano come il pupazzo di paglia sovrano di ogni Carnevale.
Le maschere del Carnevale nel cuore del secondo millennio non sono solo le proiezioni di una coscienza multiforme o lo schermo dell’umana ipocrisia: sono strumenti tecnici che rispondono anch’esse ad un ordine. Sono le facce dei morti, viatico per un Carnevale che è congiunzione con il mondo dei defunti per una festa che scavalca il tempo terreno; sono i volti dell’anno con le sue stagioni, che come Giano bifronte guarda al vecchio e al nuovo insieme, in un ciclo agricolo e astrale; sono le maschere antiche, dette persone – attraverso cui passa il suono – che torneranno ad essere teatro nella Commedia dell’arte; sono eleganti immagini di bellezza che nascondono il terrore di una giovinezza che si fugge tuttavia, quando nei canti di Lorenzo de’ Medici il Carnevale siede al tavolo dei nobili.
Il Carnevale vive a Firenze nella sfida al gioco del pallone che, con i Lanzichenecchi in città, i fiorentini disputano in piazza Santa Croce per farsi beffa della guerra. Si pianta a Roma, quando nel 1467 Papa Paolo II lo fa celebrare nella via Lata, la via del Corso, togliendolo dai quartieri periferici e godendosi lo spettacolo delle corse di cavalli, dei giochi e delle crapule dalle logge di Palazzo Venezia. Proprio lui veneziano, testimone del Carnevale più ricco di delizie, quello della città di San Marco, in cui tanto le famiglie nobili, culle dei dogi, quanto il popolo nelle calli creano un nuovo ordine, per nulla bestiale ma di raffinata ed ostentata libertà. “Qua la moglie e là il marito, ognuno va dove gli par; ognuno corre a qualche invito, chi a giocare e chi a ballar” scrive Goldoni; il caos primordiale qui ha già preso le forme di un controllato giuoco borghese che miscela temperata licenza e buoni costumi. In Europa c’è qualche zolla dura per il Carnevale, dove non riaffiora: proprio dove si era celebrata la festa dei folli, dipinta da Bosh e fantasticata da Brandt, la riforma protestante disperderà la linfa del carnevale, che nelle leggende nordiche si era espresso, rendendolo inespressivo nel rigore della morale luterana e calvinista. Scapperà altrove il Carnevale, arrivando come soldato colonizzatore nelle terre del nuovo mondo per farsi sovrano: per portare un segno potente dell’Europa mediterranea nella nuova America, dove sarà meticcio, danzante e chiassoso mischiandosi con gli spiriti del Sudamerica che si fa indipendente. Alle soglie della contemporaneità il Carnevale stanca pure, con le sue beffe, giochi e disfide che finiscono nel nulla: quando Maria Luisa reggente d’Etruria nel 1807 interrompe a Firenze i giochi del carnevale, esclama: “troppo per un gioco, poco per una guerra”. Ma non finirà qui. Il Re Carnevale accetta di bruciare, ma non di passare inosservato: tornerà con nuova energia, in altro tempo, con altro costume.