Il vaccino non curerà la fragilità degli italiani, né l’incapacità di chi ci governa

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L’Italia è la Ballarò dell’inferno, Dante ne aveva codificato l’archetipo. Un Belgio finto, una Svezia di plastica, una bestia che ingolla erba pur essendo carnivora, affamata di intelligenza applicata ai protocolli, che quando si sforza di essere globale, smart, iperconnessa, comunicativamente all’avanguardia, risulta ridicola, specie se si pensa che un paesino del Lazio di 3mila abitanti esulta quando nel 2021 arriva la fibra. Questo Paese avrebbe il suo tempo e il suo modo, ma se lo è dimenticato. Il suo modo, per esempio: per chi sto facendo inenarrabili sacrifici quotidiani? Per Speranza, solo per la mia salute, per i banchi a rotelle? Bolgia umana che non diventa urbana, non reagisce, non si ribella, si lamenta e basta: troppo presto, troppo tardi, troppo poco, troppo tanto, troppo aperto, poco chiuso.

Ma la colpa è di chi la mette in condizione di vivere nell’angoscia che, a differenza della paura, ha una durata e un’indefinitezza maggiore. Allora urla, baruffe, zuffe, cartomanti, fattucchieri, maghi e indovini, furbi e fessi, baffi neri e mandolini. Un mercato di carne umana esposta alle intemperie politiche, alla incompetenza e alla mancanza di dignità, di pietà, di allungo mentale, di una visione di uomo e di Stato, che la rendono guasta, putrida, la anneriscono. Invendibile appare infatti nel contaminare il tempo europeo, come per secoli ha fatto, dall’arte, all’ingegneria, dalle scarpe, alla letteratura. Scienza della putrescenza.

Si sta consumando un crimine di incredibile crudeltà. Si è toccato il livello più basso di rispetto dei cittadini, e, insieme, il punto più distante tra Stato e cittadini, in un rapporto perverso ormai fondato sul marketing elettorale, sulla Life politics – dal gossip sul leader, al voyeurismo, sino al selfismo militante – e sul terrore, non più sulla fiducia. Identità virologiche in un tempo puntillistico, che nascono all’alba e muoiono al tramonto ridisegnando priorità anche su cosa fare a cena, ansie del giorno, paure portanti, e valori importanti. Impera la mediocrazia, che è stasi nel mezzo, terra di borghesi, piccoli, piccoli, capacità di discolparsi da tutto per l’incapacità di assumersi le proprie responsabilità. Ce lo ricorda Curzio Malaparte: “Quando un popolo individualista come il nostro perde la fiducia in sé stesso e nelle istituzioni che lo reggono, l’immoralità diventa una forma di viver civile e la mediocrità invade la cosa pubblica.“

Non v’è punizione peggiore che giungere economicamente e psicologicamente devastati alla resa dello Stato, mostrata in queste ore con il blocco dei vaccini Astra Zeneca. Precauzione? Cautela? Confusione? Guerra economica, geopolitica? Di sicuro è che il lockdown, che doveva durare quindici giorni o fino a Pasqua, andrà incancrenendosi, così come l’isteria popolare degli uomini folla – governati sulla base degli istinti, in un continuo stato di agitazione permanente che ora li porta a essere iperemotivi sul blocco dei vaccini -, che non vedono più garantita la rassicurante gratificazione istantanea e si trovano le emozioni in subbuglio: l’immagine-verità svanisce, per il momento e qualsiasi richiesta a loro imposta, come le nuove restrizioni o la caccia ai maledetti giovani/runner/festaioli, si realizza poiché essi farebbero qualsiasi cosa pur di vedere esaudite le proprie necessità di sopravvivenza. Uomini folla con la sindrome di Stoccolma, innamorati dei propri rapitori, replicanti di un volere.

La vita, quindi, non solo può attendere ma diventa nocivo viverla in attesa del vaccino in ritardo, a questo punto, unico Dio, unica salvezza, unico motivo anche per nutrirsi o defecare.

Non vi è stata una fase di questo delirio, gestita con la sicurezza del carisma, della lungimiranza e della qualità che si richiede ai dirigenti dello Stato, ai ministri, alle “minoranze qualificate”, le chiamerebbe Ortega y Gasset, che conducono la vita delle masse coi gradi dell’istituzione, della più alta rappresentanza democratica.

Ma in finale: per far dimettere Speranza occorre che venga a casa vostra a iniettare l’acqua della pasta direttamente nel braccio destro?

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Emanuele Ricucci
Emanuele Ricucci è nato a Roma il 23 aprile 1987. Lavora per la comunicazione di Vittorio Sgarbi, di cui è tra gli assistenti, ed è collaboratore per la comunicazione del Gruppo Misto Camera dei deputati (NI-U-C!-AC). Scrive di cultura per Libero Quotidiano, per Il Giornale e per il mensile CulturaIdentità. Ha scritto, tra gli altri, per Il Tempo e Candido, mensile di satira fondato nel 1945 da Giovannino Guareschi. È autore di satira ed è stato caporedattore de Il Giornale OFF, approfondimento culturale del sabato de Il Giornale e nello staff dei collaboratori “tecnici” di Marcello Veneziani. Ha studiato Scienze Politiche e scritto cinque libri: Diario del Ritorno (Eclettica, Massa 2014, con prefazione di Marcello Veneziani), Il coraggio di essere ultraitaliani. Manifesto per una orgogliosa difesa dell’identità nazionale (edito da Il Giornale, Milano 2016, scritto con Antonio Rapisarda e Guerino Nuccio Bovalino), La Satira è una cosa seria (edito da Il Giornale, Milano 2017) e Torniamo Uomini. Contro chi ci vuole schiavi, per tornare sovrani di noi stessi (edito da Il Giornale, Milano 2017). Questi ultimi prodotti e distribuiti in allegato con Il Giornale. Antico Futuro. Richiami dell’origine (Edizioni Solfanelli, Chieti, 2018, scritto con Vitaldo Conte e Dalmazio Frau) e, da ultimo, Contro la Folla. Il tempo degli uomini sovrani (con critica introduttiva di Vittorio Sgarbi). Dal 2015 scrive anche sul suo blog Contraerea su ilgiornale.it. È stato direttore culturale del Centro Studi Ricerca “Il Leone” di Viterbo ed è attualmente responsabile dell'Organizzazione Nazionale di CulturaIdentità

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