La piazza è il luogo simbolo dell’italian way of life; mediata l’idea dall’agorà greca che ancora oggi mantiene come termine un’estensione più ampia, di luogo legato alla politica, la piazza ha invece caratteristiche innanzitutto sociali (di natura religiosa o civile non importa) che la rendono un unicum non solo dal punto di vista urbani-stico ma anche culturale. Di fatto, la piazza è un elemento precipuo del vivere quotidiano del Bel Paese, per dirla con Dante, che di fatto non esiste così come è connotata in nessun altro contesto geografico e denota le nostre città d’arte in modo definitivo, tanto da poter pensare una sorta di esemplificazione di esse attraverso questi spazi che ne sono il centro topografico e ne rappresentano lo spirito al massimo grado.
Di fatto le piazze sono una sineddoche delle città che le contengono. Ed essendo inoltre, contesti d’arte a cielo aperto, le piazze possono rappresentare anche nell’era del distanziamento la meta perfetta per un turismo non di massa, in cerca di bellezza, che ne vuole godere e ne sa apprezzare l’integrità architettonica e allo stesso tempo viverne il tempo sospeso che è allo stesso diacronico e sincronico, cioè un tempo storico che da un lato si prolunga alle nostre spalle e che dall’altro si concentra nel tempo presente del qui e ora. Così se stiamo fermi in una qualsiasi piazza italiana, immersi dentro di essa, circondati da essa, possiamo presagire lo zeitgeist, lo spirito della determinata epoca in cui la città fu costruita, e che è rimasto pietrificato negli edifici che ci stanno intorno; ed anche la stratificazione dei vissuti e delle varie funzioni, ci permette di comprendere fino in fondo il genius loci, di capirne le espressioni identitarie che però non sono separanti, semmai amorevolmente inclusive: ed è forse il motivo questo, per cui ogni volta che siamo in una di queste piazze, ci immaginiamo la vita che è trascorsa in esse e ci immaginiamo anche come avrebbe potuto essere la nostra vita o come sarebbe se la scegliessimo ora. Ogni piazza ci invita a restare; è tecnicamente una meta esistenziale e non semplicemente una meta turistica. Così, il Grand Tour delle città d’arte italiane può essere fatto anche solo sostando nelle piazze che le caratterizzano, non serve vedere altro, non servono musei, sfiancanti inseguimenti di scorci da fotografare, ulteriori monumenti, palazzi, chiese, battisteri.
Basta essere in piazza delle Erbe a Mantova, seduto sotto i portici, di fronte la cupola di Sant’Andrea, disegnata da Leon Battista Alberti, per respirare il potere dei Gonzaga tra Mantegna e Giulio Romano. E basta essere in piazza delle Erbe a Verona, per capire il mercato medievale, o nella oblunga piazza Ducale di Vigevano per immaginare lo sforzo architettonico degli Sforza sul finire del Quattrocento. A Ortigia, guardando le colonne del tempio greco inglobate nel Duomo, per sentire la millenaria persistenza della divinità femminile in quello spazio. In piazza del Duomo a Lecce, si possono gustare le volute del Barocco, mentre il neoclassicismo nella vasta piazza Emile Chanoux, sproporzionata per una piccola città come Aosta; a Trieste, nell’immensa piazza Unità d’Italia, le geometrie finali dei lacerti dell’impero austriaco e la forza della nostra nazione; a Viterbo, in piazza san Lorenzo, la stanchezza del papato in esilio; ad Agnani, al contrario, la fierezza della chiesa; a Palermo, in piazza Pretoria, la fontana della Vergogna svela l’indolenza siciliana che esplode nel fronzolo. Nella piccola piazza di Orvieto, guardando il Duomo, non si può che pensare agli affreschi di Luca Signorelli dentro di esso e alla sua concezione plastica della risurrezione.
A Vicenza ci si stupisce della magnificenza della Basilica Palladiana ammirata comodamente seduti in piazza dei Signori. A Monza, osservando il Duomo, pensiamo a Teodolinda. A Como, in piazza del Duomo, facciamo un salto nel medioevo. A Siena in piazza del Campo sentiamo la follia dei senesi che vollero essere capitale del mondo. A Roma in piazza Navona, guardando la fontana dei fiumi del Bernini, si capisce davvero cosa significava per il Papa la questione apostolica. A Monreale, in piazza Guglielmo II, le visioni dei normanni. A Marostica uno vorrebbe sapere giocare a scacchi. A Torino, in piazza Vittorio Veneto, per una volta, si può amare la monarchia. A Firenze in piazza della Signoria, prediligiamo invece la Repubblica di cui il David è splendido monito. A Pisa la piazza dei Miracoli è un miracolo, come pure l’ardita resistenza della torre in bilico. In piazza IV Novembre a Perugia si può gustare il gotico.
E poi ci sono le più rinomate, piazza San Marco a Venezia, piazza del Duomo a Milano, piazza Navona a Roma, piazza del Plebiscito a Napoli, piazza Maggiore a Bologna, Piazza anfiteatro a Lucca, Piazza della Cisterna a San Gimignano, Piazza del Duomo a Parma, e quelle di Ascoli, Ferrara, Genova, Todi, fino all’immenso Prato della Valle di Padova. Ogni città, paese, borgo ha la su piazza. Ogni Italiano ne ha una nel cuore. A Pienza, Enea Silvio Piccolomini, salito al soglio pontificio con il nome di Pio II, ne volle una, così perfetta che rimase per sempre esemplificazione degli ideali urbanistici del Rinascimento e forse di sempre. La piazza diventa una questione metafisica, secoli dopo un grande pittore come De Chirico l’avrebbe raffigurata.
Angelo Crespi