Parla l’ex campione del Milan oggi Presidente del settore tecnico FIGC
Milan, Atletico Madrid, Barcellona, Lazio e la Nazionale: una carriera che parla da sola quella di Demetrio Albertini. E una bacheca che fa altrettanto: 5 scudetti e 3 Champions League in maglia rossonera, un campionato spagnolo. Quasi 50 anni di calcio, dall’oratorio fino a San Siro, vicecampione del mondo nel 1994 (Stati Uniti) con la maglia azzurra, ora con il ruolo di presidente del settore tecnico della FIGC: il curriculum ideale per parlare di “mens sana in corpore sano”, la famosa espressione di Giovenale, intesa con il significato che corpo ed anima debbano svilupparsi insieme per assicurarsi il benessere.
Albertini, immaginiamo che un ex calciatore non possa che concordare con la nota filosofia di Giovenale: però la mancanza di tempo, lo stress, la vita moderna possono comunque far conciliare corpo e mente?
“Assolutamente sì, debbono, anche perché i benefici di un’attività sportiva continua sono palesi a tutti: sono 18 anni che ho smesso di giocare, ho avuto in pratica una seconda vita, ma oggi frequentando Milano ti posso dire che il 90 per cento dei manager milanesi che conosco fa attività sportiva, e spesso anche agonistica, con continuità. La continuità è la parola chiave”.
Secondo te c’è il rischio che la società imponga e standardizzi sempre gli stessi corpi da vetrina, mentre ciò che realmente conta è il benessere personale?
“Fra i giovani, forse. Ma fra gli over 40 e gli over 50 l’obbiettivo è oggettivamente stare bene e tenersi in attività. Poi nel mio caso, come ex calciatore, non sai quanti acciacchi abbiamo, perché veniamo da una super attività… L’importante è non superare troppo i propri limiti: lo può e lo deve fare l’atleta, ma non le altre persone”.
Sulla base proprio della tua esperienza da atleta, in quale modo si può scoprire, come sosteneva Socrate, ‘di quali meravigliose cose è capace il nostro corpo’?
“Quando sei un atleta di un certo livello il limite non esiste: quando hai raggiunto il tuo scopo, il giorno dopo già hai uno scopo superiore. Poi naturalmente esiste il talento personale: io per esempio non ero un giocatore velocissimo, ma la mia velocità, che non era una mia caratteristica vincente, poteva essere migliorata, superare il limite era appunto il miglioramento: questo fa un grande atleta”.
Come padre avrai sicuramente trasmesso il valore dello sport, qual è la sfida principale che hai dovuto affrontare in questo senso, oppure è stato tutto automatico?
“Quando faccio formazione e vado a parlare nelle scuole ai genitori la prima cosa che dico è che i ragazzi devono fare sport agonistico: così vengono preparati alle sfide, non solo dello sport ma anche della vita quotidiana. Io affermo sempre, ribaltando il sentimento comune, che i buoni calciatori mediamente sono anche delle brave persone, e non viceversa. Ai miei figli ho insegnato prima di tutto la competizione, cioè la gestione, fondamentale, dell’emotività: se non ti giochi niente non ti emozioni a livelli importanti. Mio figlio fa scherma, mia figlia è multisport (nuoto, equitazione, sci, pattinaggio artistico…): credo che occorra ricercare le proprie passioni, e lo sport deve essere prima di tutto passione, spesso il problema è che non si conoscono tutte le discipline praticabili”.
Per un periodo sei stato impegnato in prima persona anche nella formazione dei ragazzi, attraverso la scuola-calcio. Cosa può dare oggi -soprattutto ad un ragazzo- l’attività sportiva?
“E’ una scuola di vita: le regole che avevo nello spogliatoio da giocatore le ho portate nel mio percorso successivo da manager. Le lezioni universitarie sono orizzontali, lo sport invece è molto trasversale, è saper apprendere qualcosa di nuovo, è concentrazione, è criterio manageriale. Sono tutte regole di vita. Si dice sempre che lo sport sia il valore del rispetto dell’avversario, io dico che la prima regola è il rispetto dei propri compagni: quando giocavo mi dovevo preparare per riuscire ad essere all’altezza di condividere con loro il raggiungimento di un traguardo, e ciò voleva dire allenamento, serietà, impegno, lavoro”.
Hai iniziato la carriera in oratorio, tuo fratello maggiore, don Alessio Albertini, è sacerdote: l’aspetto spirituale può essere d’aiuto?
“Certamente, bisogna allenare anche il fattore spirituale. Del resto, secondo me si allena ancora troppo poco la testa: io per esempio non ho avuto un mental coach ma ho imparato con la maturità che invece è una figura fondamentale. Naturalmente il fattore spirituale può essere assicurato in diverso modo: dalla tua famiglia, oppure dal tuo allenatore, da un tuo amico, dalla scuola, dall’oratorio. E la fede, io sono cristiano, ti può garantire l’equilibrio necessario per affrontare al meglio la vita”.
In questo binomio corpo-mente il doping è il vero fattore di rischio? O pesano più altri fattori?
“Uno dei rischi, non l’unico e neanche il più grande. Ricordo per esempio il calcioscommesse. Il vero problema è che il doping può coinvolgere tutta la base, le scommesse invece sono più elitarie”.
A questo proposito come valuti, anche come presidente del settore tecnico della Federazione italiana gioco calcio, le recenti dichiarazioni di Dino Baggio (e non solo, si sono aggiunti pure Florin Raducioiu, Massimo Brambati, Antonio Di Gennaro e Marco Tardelli), con la richiesta di indagare, dopo le morti di Gianluca Vialli e Sinisa Mihajlovic, sulle sostanze che venivano somministrate ai giocatori, tu hai giocato più o meno nello stesso periodo?
“Credo fermamente nei dottori che ho avuto, nella società calcistica che mi ha cresciuto, e credo che sicuramente abbiamo fatto abuso di alcuni farmaci che fanno male, però siamo tutti uomini che hanno fatto delle scelte: poi, se si vuole fare qualunquismo e lanciare allarmi lo si può anche fare, ma servono basi e non sospetti. Pensiamo sempre di essere immortali e invece non lo siamo”.
Non ti posso non chiedere un ricordo di Vialli, la cui immagine fra l’altro è la nostra copertina.
“Ho esordito con Gianluca in Nazionale, davanti in attacco c’erano lui e Roberto Baggio, aveva una grande personalità, tante sue parole ancora restano vive e le porterai sempre con te, è stato un punto di riferimento e lo sarà ancora”.
Un’ultima domanda, adesso sei un manager della Figc, e anche un imprenditore: conosci il Credito Sportivo, la Banca dello Sport, e cosa ne pensi?
“E’ un’opportunità di sviluppo, anche per il Paese intero. Lo dico da rappresentante istituzionale e pure da proprietario di impianti di padel e di centri sportivi: non è soltanto una banca, è un mezzo di divulgazione sportiva, è un punto di confronto costante, e ti accompagna sempre nella tua attività”.















