Nel corso della vita ho imparato che gli individui, a dispetto della loro unicità e identità, spesso finiscono per essere suddivisi in categorie che, di volta in volta, li schematizzano attraverso filtri banali e spersonalizzanti. Tali griglie stigmatizzano un aspetto della personalità di costoro, oppure il suo esatto contrario. Questa certamente non è una gran bella verità da ammettere perché le etichette, altrettanto spesso, non rendono onore, né merito, né giustizia a chi le porta addosso, a chi va in giro, probabilmente ignaro d’indossarle come un barcode tatuato sulla fronte, convinto magari di essere libero di poter spaziare negli ambiti più originali e diversificati dell’esistenza e dell’umana esperienza.
Così, per fare un esempio, è ormai consuetudine abbastanza assodata affermare che gli uomini si dividano in due gruppi: quelli che parlano delle donne e quelli che parlano alle donne. In effetti, pare esserci una differenza sostanziale fra primi e secondi; i primi sono quelli perlopiù impreparati a creare una qualsivoglia sintonia o affinità con l’emisfero femminile del globo. Accade che lor signori gioiscano del vanesio passatempo d’imbonire altri soggetti della stessa categoria, presi a campione su scala mondiale, elucubrando su fittizie competenze in materia, che sicuramente non posseggono. Questi buontemponi solitamente gongolano, profondendosi in racconti che talvolta sconfinano nel fantascientifico.
Dissimilmente vivono, pensano e agiscono i romantici ed eleganti esponenti della seconda categoria. Costoro tengono infatti in massima considerazione il parere del “sesso debole”, la presenza e l’amicizia delle “quote rosa” e guardano alle Donne di ogni tempo e di ogni luogo con sguardo adorante ed empatico. E ora vengo al punto…ma se esistesse una categoria che riunisse in sé entrambe le precedenti, in un istrionico mix di gioiosa condivisione ed ironica compenetrazione, non sarebbe forse la conquista a lungo agognata da parte del gentil sesso? Impegnata in siffatte riflessioni, mi sono imbattuta in un artista toscano che pare assurgere proprio al glorioso prototipo in rappresentanza della suddetta terza categoria. Come, vi chiederete. Ecco spiegata la magia, svariati e significativi sono gli ingredienti di cotanta sensibilità: Iuri Ogana, in arte Yuro, è un musicista talentuoso che, ad un certo punto del suo percorso esistenziale, sceglie di esplorare nuovi territori di espressione artistica. Inizia a leggere e studiare Arte per un anno, addentrandosi nei meandri degli studi di figura e, con innata semplicità ed efficacia, prende a realizzare disegni, bozze, quadri; fa venir fuori quello che ha dentro, così, come per una sorta di fortunata osmosi, fantasiosa e fantastica. Asseconda il flusso, libera la mano, esprime le sue potenzialità ed il risultato lascia letteralmente a bocca aperta, se si pensa che, prima di quel fatidico anno di full immersion pittorica, non aveva mai tenuto in mano un pennello.
Yuro realizza schizzi di donne, le racconta come le vede con il suo sguardo interiore. Sono dee totalmente terrene, intrise di una sensualità calda e ammiccante. Le sue donne parlano alle donne come forse lui, a voce, non saprebbe esprimersi. Raccontano la solarità, la regalità, l’avvenenza, l’etereo distacco che le definisce e lo fanno in un modo e con colori che arrivano direttamente all’anima delle donne.
In Goldy, Yuro riesce a catturare in uno squarcio visivo la bellezza senza tempo, né collocazione geografica, di una donna con grandi occhi azzurri e una bocca prorompente che la rende languida e algida al tempo stesso. Lo sguardo fisso in un punto oltre l’osservatore pare tracciare la traiettoria dei suoi pensieri, ella è presente e tuttavia astratta e distratta. Tu, uomo, non puoi averla, non la possiedi, puoi solo ambire a ché i suoi occhi si posino una volta su di te, per farti sentire visto, per farti sentire vivo. Goldy unisce, in maniera decisamente godibile e originale, tratti volutamente concettuali alla tecnica ritrattistica. L’effetto pacifica mente e sensi, vista e pensiero. Un volto femminile, magnifico, sembra quasi emergere da un ricordo. Colori vivaci, alternati a tonalità fredde, in dense composizioni acriliche, delineano i confini del desiderio di un uomo verso la donna dei suoi sogni. La sua immagine riempie metà dello spazio pittorico e, dove la sua figura non si estende, tutto diventa indistinguibile e indecifrabile.

Yuro ha un’abilità sfaccettata e poliedrica, capace di soffiare un anelito vitale nei suoi ritratti; Silvya è raffigurata di profilo, come se si sottraesse volontariamente ad un ipotetico osservatore frontale. Ha un’acconciatura raccolta, gli occhi socchiusi, il volto proteso, con il mento all’insù, in un leggero fremito di benessere, tutti dettagli che inviterebbero a soffermare lo sguardo sul suo busto nudo…la spalla, il collo, il braccio. Ogni altra nudità non è apertamente svelata. Tocca all’uomo, che resta a contemplarla silenzioso, definire i contorni di questo corpo voluttuoso, e pur sempre celato, che fa appena intravedere la generosità di un seno femminile. Unico accessorio distrattore, fra tali proporzioni che inneggiano ad un dialogo muto – fra l’artista e il suo fruitore – in cui il piacere potrebbe essere l’elemento che funga da decoder, è l’orecchino turchese della donna. Esso esce fisicamente dalla tela, agganciandosi alla dimensione spaziale dell’osservatore, come a regalargli la certezza che ciò che egli sta immaginando non è una semplice visione onirica, bensì la pura realtà, offerta al suo sguardo affinché ne colga tutta l’inafferrabilità. L’orecchino rallenta la corsa dell’occhio esterno e ne blocca lo stimolo immaginifico. Quel pendente, tondo come un piccolo pianeta isolato dalla galassia del soggetto ritratto, è un contrafforte elusivo. Anche in questo dipinto, la donna troneggia quasi, imponente si staglia, emergendo da una palette brillante e satura di pennellate ordinate in lunghe bande colorate. Yuro sembra voler porgere all’osservatore la stella più bella del firmamento in sovrimpressione, che risalta definita e superbamente sicura sullo sfondo.

Letizia (Notte d’estate), uno degli ultimi lavori dell’artista, che combina acrilico e pennarelli acrilici, si sviluppa sui toni selettivi del black&white e proprio su questo gioco di luce e ombra si snoda il suo fascino audace. Nuda, anch’ella di profilo e con la schiena inarcata, pare voglia concedersi alle fantasie del pubblico. Tuttavia, è totalmente assorta e chiusa nel suo mondo interiore, non ci sono varchi d’accesso, nessuno spiraglio è lasciato aperto all’osservatore. Una cascata di capelli corvini riempie lo spazio sinistro della tela e lo sfondo color fumo le conferisce un’aura da creatura notturna e taciturna. Letizia chiude gli occhi, spegne la luce e s’isola dal mondo esterno. Nulla la sfiora, nessuno può toccarla, il suo universo comunicativo sta tutto nella protervia audace del collo affusolato, allungato all’indietro.

E poi c’è Marina, fresca, sfacciata, insolente, che cambia il ritmo e rompe lo schema. Marina, come il nome che simbolicamente porta, sa d’estate; ha il mare nello sfondo e sul riflesso degli occhiali da sole; i suoi capelli biondi sono mossi e una lieve brezza oceanica glieli scompiglia. Si mostra pacata a chi vorrebbe avidamente osservarla, ma si nasconde dietro quelle lenti specchiate, nessuno può avere la conferma che lei stia ricambiando il suo sguardo, mentre forse sta solo guardando altrove: un gabbiano sulla scogliera, oppure sonnecchia pigra sotto il sole. E di nuovo ritorna la costante del corpo presumibilmente nudo, che diviene firma e cifra stilistica dell’artista. Anche Marina ha labbra rosse e carnose, socchiuse, succose e lucide come ciliegie mature. Marina potrebbe anche essere una sirena moderna e lo sfondo essere la sua luminosa casa blu, fra le onde cristalline. Pare inequivocabile che Yuro parli delle donne, che le racconti con magistrale sapienza e tuttavia senza alcun ostentato vanto. Pare altresì plausibile che parli alle donne, perché io, prima come donna e poi anche come critico di un’arte declinata al femminile, contemplando con calma e attenzione i suoi quadri, ho scorto forza ed eleganza, bellezza e leggiadria, qualità non di rado femminili.

Queste caratteristiche un uomo non sempre è in grado di riconoscerle ad una donna, e ancora meno si presta a dipingerle per lei ed in lei, rendendole immortali. Perciò Yuro comunica a tutte noi, e certamente anche agli uomini per par condicio, nel suo linguaggio elettivo, provocatorio e accattivante, che quanto più la Donna sa essere tale, tanto più attira a sé il resto del mondo, con energie ataviche e razionalmente inspiegabili, che un pittore musicista è stato capace di cogliere e d’imprimere per sempre sulla tela.


















