Garbo: “Le nuvole continuano a non avere paura”

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Da sempre innamorato degli Ultravox, David Bowie e Brian Ferry, due Festival di Sanremo alle spalle e 30 anni di musica indie/pop e ambient

Renato Abate in arte Garbo, esponente della prima new wave italiana, esce con un album live dal titolo “Sulle cose che cambiano”, citazione tratta dal brano “Vorrei regnare” pubblicato nei primissimi anni ’80. Il disco verrà presentato il 4 dicembre al Legend Club di Milano, con il musicista Eugene (piano, voce e diavolerie varie) una collaborazione che dura da 6 anni, infatti il disco è stato registrato durante i vari concerti che si sono tenuti in questo tempo, un documento sonoro che (ri)presenta il percorso dei due musicisti, con uno spettacolo volutamente algido e in assetto totalmente elettronico. Artista di natura cantautorale ma sempre in fermento creativo sui fronti sonori e lirici, Garbo è attivo nel panorama musicale dal 1981 con 23 album pubblicati e canzoni indimenticabili come “A Berlino…va bene”, “Quanti anni hai?” incisa con Antonella Ruggiero dei Matia Bazar, “Radioclima” e la bellissima “Generazione” presentata al Festivalbar ’83.

Come sono oggi i tuoi spettacoli dal vivo?

Presento una carrellata di brani, una sintesi ovviamente, perché gli albumi che ho inciso sono tanti. Dalle prime cose più riconoscibili, insomma quelle che la gente poi ha potuto ascoltare maggiormente rispetto al mio repertorio, fino alle cose anche più legate al superamento degli anni 80, quindi anni 90, fino all’ultimo album di inediti che si chiama “Nel vuoto”.

Proprio in quel disco c’è una canzone dal titolo “Il mondo esplode” dove tratti argomenti legati al disagio, forse ad un rifiuto. Di che cosa parli esattamente?

Globalmente, concettualmente, “Nel vuoto” analizza una palese carenza e svuotamento culturale negli ultimi anni, che anche l’uomo cosiddetto della strada, che non necessariamente è un uomo di cultura o d’arte, si accorge. Lo svuotamento anche di valori, un azzeramento di valori importanti, tanto che anche il valore stesso della vita, le nuove, le nuovissime generazioni, il valore della vita stessa diventa quasi velleitario. Quante forme di autoannullamento troviamo tra le nuove generazioni? Ma, a parte questo, è anche un tentativo mio, per la prima volta in carriera, di creare proprio un annullamento e una curvatura, diciamo così, spazio-temporale, come se questo lavoro condensasse un po’ la mia esperienza, al fine di collocarlo temporalmente negli anni ’40, 2040, 2020, 2010, la stessa cosa, far sì che questo lavoro non risenta di una temporalità riconoscibile, quindi cercare di portare non il proprio corpo, che non è possibile, alla velocità della luce, ma la mente può raggiungere la velocità della luce e quindi curvare lo spazio-tempo.

Tu hai cominciato la tua carriera nell’81 con l’album “A Berlino va bene”, un disco che è stato presentato durante un tour mitico, quello de “La Voce del padrone” di Franco Battiato. E’ stata una scelta della EMI?

Sì perché eravamo nella stessa scuderia, ma anche di Franco, perché è sempre stato, lo conoscete, uno sperimentatore. Sicuramente, era anche abbastanza, tra virgolette, furbo ad avvicinare a se stesso le nuove generazioni musicali e quindi rinnovare attraverso l’esperienza, la collaborazione con giovani musicisti che a lui potevano interessare e portandoli appresso. Io viaggiavo con lui, mangiavamo insieme, quindi passavo tutte le giornate con lui e allora i tour erano continuativi, magari c’era un day off ogni 10 giorni. Ricordo che abbiamo fatto una settantina di concerti insieme, io aprivo naturalmente le sue esibizioni, mi faceva notare che strada facendo il pubblico un po’ cambiava, si univano nuovi elementi, il suo pubblico era la prog e si fondeva piano piano con un pubblico che mi gridava “Killing Joke!” oppure “Joy Division!” quindi mi trovavo davanti tutto questo muro di gente, perché allora Battiato incominciava a essere molto frequentato, lui cominciava a leopardarsi, a chiazzarsi di macchie nere. Arrivavano i darkettoni, che comunque si univano al pubblico di Battiato e questo fu molto interessante, perché c’era un passaggio anche generazionale.

Poi eravate molto elettronici tutti e due.

Sì, sì, sì, indubbiamente.

Quando è stato rieditato l’album “Fotografie” dell’84, mi è piaciuta molto una nota che hai trascritto nel booklet interno, che è una cosa che penso anch’io, ovvero che secondo te gli anni ’80 sono cominciati nel 1978 e terminati nel 1985. Che cosa volevi dire esattamente?

Come d’altra parte gli anni 70 iniziano nel ’68, quel momento di rivoluzione culturale e nasce la musica tipica di quel rock del periodo che termina in fondo nel ’75 /’76.

Però tu l’hai vissuta, non soltanto come spettatore, ma anche da protagonista o no?

Certo, credo che cessasse in quegli anni, in quelle date proprio, l’idea di movimento come la new wave, si percepiva. Era un sentire comune, anche senza bisogno di internet, allora io non sapevo cosa accadeva in Francia, in tempo reale, non sapevo cosa accadeva in Giappone, piuttosto che in Germania o in Inghilterra. Dalla fine degli anni Ottanta in poi è morta proprio l’idea di movimento, fenomeni più o meno interessanti sparsi qua e là, come i Radiohead, cose interessanti ma non appartenenti a un’idea di movimento che non riguardasse solo il sound, ma anche la cultura, il sociale, una filosofia di vita in generale. È vero che c’è stato il grunge, però non è cosa che ci appartiene molto, è qualcosa d’oltreoceano. C’è stato un po’ di vuoto dall’85/86 in Italia. Questo intendevo dire.

E proprio in quell’85 tu andasti a Sanremo per la seconda volta, con “Cose veloci”. Un cast fenomenale, l’unica pecca quell’anno era il playback.

Eh si, facevamo live sulle basi solamente per i giornalisti, nel pomeriggio, durante le prove. Un cast fantastico, è vero anche tra gli ospiti stranieri. Ho conosciuto i Talk Talk, i Duran Duran e i Queen che erano della Emi come me. Brian May mi chiese “Cosa ci fai tu qui? Non c’entri nulla” (ridiamo) non si riconosceva il contesto, a parte la coincidenza non cercata di “Radioclima” e “Radio Ga Ga” che ci scherzavamo sopra.

Dopo quel Sanremo lo zoccolo duro di Garbo si aspettava l’album nuovo, che è arrivato solo molto tempo dopo con il passaggio alla Polygram. Cosa è successo con la Emi?

Come tutta la discografia multinazionale, ad un certo punto all’artista si chiede un salto commerciale che io tutto sommato ho deciso di non effettuare perché mi sarei degenerato e quindi non mi sarei riconosciuto in certe cose. La Polygram mi permise di pubblicare l’album “Il fiume” e poi “Manifesti”, dopodiché ho preferito essere libero. Se io adesso ho un atto creativo in corso, non posso aspettare di pubblicarlo fra un anno e mezzo, questi sono i tempi della multinazionale, perché io fra un anno e mezzo posso anche non riconoscermi più totalmente in quel lavoro, quindi ho cercato la velocità dell’indipendenza e ho fondato Discipline, la mia casa editrice e discografica.

Ma…le nuvole?

Non hanno mai paura! (citazione da “Generazione” – 1982)

Continuano a non avere mai paura?

A maggior ragione oggi alla mia età, perché dovremmo avere paura? Dobbiamo rassegnarci alla vita, la vita è questa. E penso sempre che sono stato un uomo fortunato. C’è chi non ha realizzato i propri sogni nella vita e ne ha fatto un lavoro, quindi l’età, oltre alla vecchiaia, dà anche la lucidità per comprendere meglio certe cose e goderne, per quello che sono.

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