Alice ed Ellen sono uscite di scena come avevano vissuto: insieme e con una disciplina quasi coreografica. A rivelarlo è il Münchner Merkur: le due sorelle avevano scelto con lucidità la data della loro morte, il 17 novembre, dopo essersi rivolte oltre sei mesi fa alla Deutsche Gesellschaft für Humanes Sterben, l’associazione berlinese che segue i percorsi di suicidio assistito.
I protocolli, in Germania, sono chiari: volontà autonoma, capacità giuridica, autosomministrazione del farmaco. L’assistenza non può intervenire direttamente, per non sconfinare nell’eutanasia attiva, vietata dalla legge. Le Kessler hanno rispettato ogni passaggio come si rispetta una scaletta, azionando personalmente il dispositivo per l’infusione dell’anestetico. Una decisione che oggi appare in linea con quanto dichiararono tempo fa: “Vogliamo morire lo stesso giorno”, dissero al Corriere. E alla Bild confidarono il desiderio di un’ultima, definitiva vicinanza: la sepoltura fianco a fianco.
Nella memoria di tutti restano le loro esibizioni, le gambe lunghe, le acconciature perfette, la simmetria studiata di due corpi che sembravano fatti per l’inquadratura televisiva. Ettore Bernabei le lanciò in un Paese che si stava risvegliando, e loro, sexy ma mai sfrontate, portarono una modernità gentile. Da Giardino d’inverno a Studio Uno, da Falqui a Don Lurio, da Mina a Bramieri: hanno attraversato la nostra storia dello spettacolo come figure-totem del varietà. E chi c’era ricorda ancora i passi di Concertino o il ritmo ossessivo del Da-Da-Un-Pa. Umberto Broccoli le ha definite “il primo sogno proibito degli italiani”: una sintesi perfetta del loro ruolo immaginifico.
La loro uscita di scena, così composta, chiude una stagione in cui la televisione non era solo intrattenimento. Le Kessler non erano semplici soubrette, ma le interpreti più riconoscibili di un’epoca in cui il varietà era un’arte, non un espediente. Oggi se ne vanno due protagoniste della televisione che fu: quella che inventava un immaginario, non che lo inseguiva. Non resta nostalgia, ma riconoscenza. Perché certi numeri di varietà finiscono, sì, ma il loro ritmo continua a camminare nella memoria di tutti noi e di tutte le teche che ci riguarderemo per sempre.

















