Suicidi in carcere. “Un tabu di cui dobbiamo parlare”

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Le inferriate del carcere di Regina Coeli a Roma

“Il decreto che abbiamo approvato oggi” prevede “un intervento vasto e strutturale che affronta in modo organico un altro settore del sistema dell’esecuzione penale. Contiene anche delle norme di diritto penale sostanziale nell’ambito anche del processo civile”. È così che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha descritto il decreto “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del ministero della Giustizia”. Il ministro, in conferenza stampa a Palazzo Chigi dopo il Cdm che ha dato il via libera al provvedimento, ha considerato questo intervento “frutto di una visione del governo Meloni” diretto a “umanizzazioni carcerarie”.

Infatti, obiettivo del governo, sempre secondo il ministro della Giustizia, è “facilitare il trasferimento della detenzione dalla brutalità dell’istituto penitenziario alla comunità di accoglienza”: fermo restando che si tratta di regime detentivo, minori e tossicodipendenti vengono trasferiti dal carcere alla comunità. Un’ iniziativa che il ministro Nordio considera “un passo molto importante”, in quanto “ci porta molto avanti nel reinserimento sociale ed è un rimedio al sovraffollamento carcerario”. Umanizzazioni carcerarie, reinserimento sociale e rimedio al sovraffollamento carcerario. Sono questi i punti chiave del decreto appena descritto dal ministro della Giustizia.

Punti che, oggi più che mai, sono nevralgici, visti i continui casi di suicidio che si verificano nelle carceri. Un tema che CulturaIdentità segue da anni coi lavori di Alessandra D’i ‘Alessio. Infatti, si parla di “47 i suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno”, come denunciato da Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria, nel commentare l’ennesimo caso di suicidio avvenuto, a fine giugno, nel carcere genovese di Marassi.

Una lista più lunga di quella del 2023, in quanto, ad oggi, i suicidi nelle carceri sono già dieci in più rispetto all’ anno scorso. Una situazione disastrata costellata da dati agghiaccianti e di cui parleremo col dott. Stefano Callipo, Presidente Osservatorio Violenza e Suicidio, Psicoterapeuta, Psicologo Clinico e Giuridico.

Stefano Callipo

Dott. Callipo, com’è possibile che in uno Stato di diritto si verifichino simili episodi e, per di più, con dati altrettanto allarmanti?

“Si tratta di un fenomeno sottovalutato. Il numero dei suicidi accertati nelle carceri è in inesorabile aumento, mietendo sempre più vittime. Si dovrebbe porre il focus attentivo sui cosiddetti soggetti a rischio, poiché sappiamo bene qual è l’arco temporale più rischioso per l’assunzione di condotte suicidarie e quali possono essere le caratteristiche di fragilità dell’individuo che entra nella realtà carceraria, soprattutto per la prima volta.”

A suo avviso, oltre a quanto già previsto dal decreto sopracitato, cosa si dovrebbe fare da un punto di vista non solo politico ma anche socioculturale?

“Di suicidio troppo spesso si parla soltanto quando si verificano molti casi vicini tra loro o quando il numero delle vittime si alza in modo sufficientemente brusco. In realtà esistono dei campanelli di allarme che se colti precocemente in alcuni casi può far la differenza tra la vita e la morte. La politica dovrebbe puntare non solo sul contenimento dei processi che portano il soggetto ad assumerne condotte suicidarie attraverso specifici progetti, ma a puntare soprattutto sulla prevenzione primaria e selettiva. Occorrono investimenti per la formazione di personale esperto, ovvero con una specifica preparazione non solo nella valutazione del rischio suicidario ma anche nella gestione della crisi suicidaria. Un altro aspetto da considerare è l’etichetta psichiatrica che viene spesso messa a tutti coloro che tentano il suicidio o lo minacciano. Gran parte degli individui coinvolti non sono necessariamente tutti soggetti psichiatrici, spesso sono persone che non riescono a gestire un intollerante dolore mentale per il quale per interromperlo vedono nel suicidio l’unico modo. Si tratta spesso, quindi, non di una ricerca di morte ma di una egodistonica via di fuga.”

Il Segretario Generale della UILPA ha denunciato altresì i suicidi della polizia penitenziaria, aggiungendo, infatti, ai 47 i suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno, i 4 appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria “che parimenti si sono tolti la vita”.

Secondo quanto emerso dall’«Osservatorio permanente interforze sui suicidi tra gli appartenenti alle forze di polizia», voluto nel 2019 dal prefetto Franco Gabrielli, negli ultimi cinque anni i suicidi tra poliziotti, carabinieri, finanzieri e agenti penitenziari sono stati 207. Il numero sale a 275 se si aggiunge la polizia locale e gli altri appartenenti alle Forze Armate. In media uno ogni sei giorni.

Dott. Callipo, perché il suicidio è una piaga che accomuna due mondi così distanti, come appunto detenuti e forze dell’ordine?

“In realtà si tratta di due ambiti attigui il cui humus è fortemente stressogeno. Le Forze dell’Ordine agiscono in ambienti dove lo stress è fortemente attivo; invece, i detenuti vivono una realtà diversa a cui doversi adattare rapidamente dalla mattina alla sera, la nostra mente ha bisogno di tempi lunghi per adattarsi ad un ambiente diverso, così come vivere con regole diverse. Le Forze Armate e le Forze dell’Ordine meriterebbero un’attenzione ed un piano di sostegno maggiore rispetto ad altri ambiti, si tratta di lavori tra i più stressogeni, e chi vive una situazione o una condizione di particolare difficoltà spesso si sente solo. Lo Stato in tal senso dovrebbe fare molto di più. Pensiamo che all’assistenza psichiatrica viene assegnato circa il 3,5% della spesa sanitaria complessiva.”

In che modo, a suo avviso, le forze dell’ordine possono risolvere una situazione così allarmante?

“Servono nuove figure all’interno delle Forze dell’Ordine, servono ritmi meno usuranti, particolare riguardo a situazioni specifiche nei casi di trasferimenti, ed una riduzione di elementi stressogeni, persino la retribuzione viene considerata quasi stressogena se pensiamo al rapporto con il tipo di lavoro. Serve prevenzione, informazione e formazione su più livelli, strutturando dei team interdisciplinari che siano in grado di agire in modo tempestivo e mirato, con alta professionalità. Ho l’onore di insegnare all’Istituto Superiore di Tecniche Investigative dell’Arma dei Carabinieri per i corsi al contrasto alla violenza di genere e posso testimoniare quanta dedizione e determinazioni le persone manifestano.”

Perché, secondo Lei, si continua a parlare poco dei suicidi nelle forze dell’ordine?

“Rispondere a questa sua domanda significa aprire una porta molto ampia dietro la quale vi è lo stigma sociale che in Italia è ancora molto forte. Aver tentato il suicidio o semplicemente averlo pensato può significare essere un malato di mente, un soggetto psichiatrico, si ha paura nel parlarne. Tutto questo pesa notevolmente sulla mente in stato di sofferenza, molti uomini e molte donne tengono per sé un malessere che, se non gestito e non elaborato, può crescere notevolmente al punto che in alcuni casi basta un semplice evento, come un litigio, un trasferimento, una frustrazione, per mettere in atto un gesto suicidario. Da anni mi occupo di suicidologia, una scienza vera e propria, e dei processi cognitivi coinvolti, e posso dirle che molte vite in specifici casi si sarebbero potute salvare.”

Da come stanno le cose, come vede il futuro del fenomeno suicidario in questi due mondi tanto distanti quanto vicini?

“Vedo una strada ancora lunga da percorrere, un fenomeno le cui radici sono molto antiche, la storia sofocliana di Aiace ce lo insegna. Pesa ancora molto lo stigma sociale e il tabù, la credenza che chiunque sia coinvolto nel fenomeno, bambini o adulti, sia un malato psichiatrico, l’incertezza nell’affrontare il suicidio in modo chiaro e diretto e di conseguenza anche gli investimenti mirati per la prevenzione e il contenimento del fenomeno rimangono fragili. Ricordiamoci soprattutto che per ogni vita coinvolta ve ne sono molte altre in gioco”.

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