Tra la severità della critica e il fascino del silenzio: il caso Marzullo

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È notte alta e sono sveglio. Non è solo la sigla che da anni accompagna Gigi Marzullo, ma anche lo stato d’animo che meglio descrive la sua televisione: veglia discreta, pensiero che scava, luce che resiste nel buio. In un’epoca in cui molti confondono il chiasso con l’intelligenza e la brace con il fuoco, lui continua ad accendere una candela nella notte, lasciando che sia la fiamma sottile a orientare lo sguardo.

Nelle scorse settimane, Aldo Grasso ha dipinto Marzullo come una reliquia dimenticata. Il critico, con parole caustiche, ha parlato della famosa «camicia da carcerato» e di un conduttore sopravvissuto al tempo per mero oblio istituzionale, arrivando perfino a scomodare Wilcock e la filosofia kantiana per ridurre il suo stile a «piattezza avvilente». Un esercizio di brillante crudeltà, che però rivela più la smania del critico che la sostanza dell’oggetto criticato.

Gigi Marzullo: il silenzio che interroga

Gigi Marzullo ha creato una forma televisiva inimitabile: sobria, laterale, profondamente umana. Con Sottovoce ha regalato alla notte uno spazio di confidenze e di sogni, un rifugio in cui premi Nobel, scrittori, cantanti, scienziati e attori hanno accettato il gioco di abbassare le difese e parlare in un tempo sospeso. La sua frase cult «Si faccia una domanda e si dia una risposta» non è vezzo narcisistico, ma un esercizio di autocoscienza che ha fatto scuola e doposcuola, al punto da entrare nei varietà, nelle imitazioni e persino nei cartoni animati.

Marzullo non aggredisce, non interrompe, non cerca la battuta a effetto: chiede. E nel chiedere, ottiene. Ricordiamo un episodio emblematico: Woody Allen, intervistato con quella cortesia che è cifra del conduttore, arrivò a togliergli gli occhiali per regalarglieli. Un gesto simbolico, che sintetizza la sua capacità di creare empatia e di ricevere fiducia anche dai grandi maestri.

L’acuto che si trasforma in stridore

Il critico televisivo di lungo corso, che spesso colpisce duro come un cannoniere in un poligono, si è divertito a liquidare il Marzullo nazionale con sarcasmo corrosivo. Ma la sua ironia, pur acuta, rischia di diventare prevedibile: attacca sempre con la stessa lama, fino a consumarla.

È facile demolire chi sceglie il registro dell’intimità, perché la delicatezza non fa rumore, non offre appigli scandalistici. Ma proprio qui sta l’errore di prospettiva: confondere la quiete con la debolezza.

La resistenza notturna di Marzullo

Oggi che il piccolo schermo, spesso, si nutre di risse, talk show infuocati e urla sovrapposte, la scelta di Marzullo suona come un atto di resistenza culturale. Creare uno spazio di ascolto non è arretrare, ma proporre un modello alternativo. Non è farsi dimenticare, ma essere presenti in un altro modo: discreto, non invadente, quasi poetico.

Nel buio della notte, Marzullo continua a vedere.
Chi grida, si logora. Chi sussurra, resiste.

E qui sta la differenza: non reliquia, ma lessico; non sopravvivenza per inerzia, ma segno che è entrato nell’immaginario collettivo. In questo risiede la forza di programmi come Sottovoce o Cinematografo, piccole camere d’eco del pensiero, chicche televisive che hanno dato dignità a conversazioni altrimenti relegate ai margini, riportando il cinema, la letteratura e la musica al centro di una notte che non dorme.

Così, mentre “è notte alta” e alcuni di noi sono svegli, Marzullo rimane a presidiare un territorio intimo, fragile, e proprio per questo necessario. È come un faro che non compete con le luminarie della città, ma che proprio perché solitario sulla costa continua a essere utile ai naviganti.

In fondo, il suo metodo è questo: un filo di voce che si fa traccia e una domanda che diventa paesaggio.

È notte alta e siamo svegli…E per fortuna dentro la scatola luminosa della televisione c’è ancora chi accende non clamore, ma coscienza.

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