La Venere influencer è una diva, un mito, una Meraviglia

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Riflessioni e retroscena sulla discussa e riuscita campagna del Ministero del Turismo

Protagonista di questi giorni è l’ignara Venere di Botticelli che dismesse le vesti di dea, dalla nudità eterea, ha assunto quelle di testimonial, in minigonna jeans e camicia, del patrimonio italiano. Ripresa la classica iconografia del volto, dagli occhi cerulei e capelli dorati ondeggianti al vento, la troviamo a fare un selfie in Piazza San Marco a Venezia o seduta a mangiare una pizza. Ecco, il carattere “pop” della campagna pubblicitaria Open to meraviglia, certamente non è una scelta da radical chic, anzi disturba certa élite di cultori che inorridisce di fronte a una narrazione così didascalica. Ma il problema non è il paesaggio retrostante che viene valorizzato quanto la Venere, in primo piano, di cui sconvolge quella comunicazione troppo immediata, semplificata per essere alla portata di tutti.

Mi spiego meglio: Venere dea e icona è qui poco marxista, poco proletaria, molto borghese. Il suo abbigliamento è da middle class rampante, la posa quasi da imprenditrice meneghina. Quindi, una dea vestita “alla marinara” – e senza un marito rapper engagé – non può essere tollerata da chi, forse, avrebbe preferito, per reclamizzare il nostro stivale, un Mangiafagioli di Annibale Carracci o i piedi sporchi del pellegrino ne La Madonna di Loreto di Caravaggio.

Il Ministero del Turismo ha optato per un’immagine cartoonistica, quasi uscita da un film di Nichetti, ma la stessa cosa accade costantemente in Francia, con la Gioconda inserita addirittura sulle scatole dei cioccolatini (e Tano Festa se ne era accorto, da vero artista Pop!).

Ancora oggi si fa difficoltà ad accettare i meccanismi capitalistici dell’industria culturale – ben consolidata a Hollywood con il cinema – antico spauracchio dai tempi di Adorno e Horkheimer, trascurando come essa potrebbe rappresentare per l’Italia la fonte di un ottimo indotto in termini di flussi di persone con rilancio del settore turistico, indipendentemente se a tali masse corrisponda o meno una consapevolezza culturale.

Le polemiche per la così detta “Venere influencer” da parte degli amici della cultura legati a un defunto passato precapitalistico riportano alla mente quando Nicolini, assessore comunista nella giunta di Roma (con sindaco Giulio Carlo Argan) venne attaccato, anche dalla sua stessa area politica, per l’ “Estate romana”, ritenuta appunto operazione commerciale volta solo al profitto.

Ma in realtà l’«aura» dell’arte- a usare le parole di Walter Benjamin- si avverte e si lascia toccare anche se resa accessibile, con un linguaggio il cui lessico viene mutuato dalla contemporaneità. Nessuno ha notato come, nelle grafiche realizzate, gli scenari facciano da “arredamento” acquisendo senso proprio grazie alla Venere, miracolosa, catartica – nonché vero marchio del made in Italy – che continuerà a sopravvivere oltre l’Italia, oltre il tempo. D’altronde, nel secolo scorso, il genio della pop art Andy Warhol non aveva “sciupato” con colori psichedelici il volto della Venere, a voler farne una star alla stregua della Marylin Monroe? Ecco, la Venere, infinitamente riprodotta, da dea passa a diva per diventare poi mito, cosicché anche il restyling grafico si lascia perdonare (dai contestatori) unitamente al “furto” dell’icona da parte della società civile. La Meraviglia ha vinto.

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