
La tragica uccisione di Charlie Kirk ha spalancato finalmente gli occhi a molte persone sulla natura terroristica delle organizzazioni violente che si mascherano dietro l'”antifascismo”. Così ora gli Stati Uniti, seguiti a ruota dall’Ungheria e dai Paesi Bassi, stanno per mettere fuori legge sigle come “Antifa”, protagonista in America di aggressioni, manifestazioni violente e danneggiamenti soprattutto durante i tumulti del Black Lives Matter e la famigerata Hammerbande, la “banda del martello”, responsabile delle feroci aggressioni squadriste a Budapest, di cui Ilaria Salis è stata accusata aver fatto parte.
A scatenare finalmente questa presa di posizione, l’improvvido uso da parte dell’assassino di Charlie Kirk dello slogan “Bella ciao”, inciso sui bossoli del fucile usato per l’attentato. “Bella ciao”, canzone divenuta simbolo della resistenza partigiana e dell’antifascismo, ancorché anacronisticamente, perché scritta nel dopoguerra e resa celebre solo dopo il Festival di Spoleto del 1964. Se nel mondo comunista “Bella ciao” era poi rapidamente assurta a inno-simbolo (spodestando il vero canto dei partigiani, “Fischia il vento”) con le incisioni di famosi cantanti come Yves Montand e del Coro dell’Armata Rossa, il suo revival fuori da quell’ambito è soprattutto dovuto all’uso fatto nella serie “La casa di carta” (“La casa de papel”) prodotta in Spagna per Netflix, che parla di una banda di rapinatori senza scrupoli. Un parallelo che ha suscitato non poco sarcasmo fra chi sostiene la natura criminale delle organizzazioni come Antifa ma anche un’acre critica alle azioni partigiane meno commendevoli (dai furti di polli durante la guerra alle stragi commesse nella primavera 1945).
Bella ciao, un inno che divide: smettiamola di usarla come arma politica
In un Paese come il nostro, dove la democrazia ha radici profonde e le istituzioni garantiscono il confronto tra idee diverse, fa sempre più strano vedere sbandierare “Bella ciao” come inno politico. Quello che ci hanno fatto credere fosse un grido di libertà contro l’occupazione nazifascista rischia oggi di trasformarsi in uno slogan divisivo, usato non per ricordare, ma per contrapporre. Non per unire, ma per escludere. E questo, naturalmente, a prescindere dal fatto che questa canzone venne scritta nel dopoguerra e divenne famosa solo a partire dal 1964. Non è il suo valore storico a essere messo in discussione, ma il suo uso simbolico.
Cantare “Bella ciao” sta diventando un rito imbarazzante. Non solo fuori luogo, ma pericolosamente divisivo. In un Paese democratico, dove le battaglie si vincono alle urne e non sul campo di guerra, usare una canzone che parla di un clima estremo della Resistenza come simbolo identitario o strumento di contrapposizione politica significa tradire lo spirito stesso della democrazia, e il motivo per cui hanno dato la vita i partigiani. Quando sentiamo parlare di “invasor” o si esalta la morte “da partigiano”, dobbiamo chiederci: chi è davvero il nemico oggi? Un occupante straniero? Un regime da abbattere? O forse qualcuno che semplicemente la pensa diversamente, ma vive nella stessa Repubblica, con gli stessi diritti e doveri?
Le parole contano: e quelle di guerra dividono Le parole sono importanti. E quelle che vengono utilizzate in “Bella ciao” – “invasore”, “sparo”, “sarò morto ma tu vivrai libera” – evocano immagini di guerra civile, di violenza, di resistenza armata. Ma oggi non siamo in guerra. Siamo in un sistema democratico pluralista, dove i conflitti si risolvono con il voto, non con il fucile. Utilizzare termini bellicosi per indicare un avversario politico non è soltanto scorretto: è una forma subdola di demonizzazione. Riduce l’interlocutore a un nemico da distruggere, non a un cittadino da convincere. E quando si fa questo, si mina alla base la possibilità stessa del confronto democratico. La democrazia, infatti, presuppone la capacità di accettare il dissenso come parte integrante del sistema. Non esiste democrazia senza opposizione legittima. E non esiste democrazia senza maturità nel saper perdere. La Resistenza va ricordata, non strumentalizzata. Nessuno vuole cancellare la memoria storica.















