Bona Dea, il mito romano per le emancipate donne sabine

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Livia Drusilla rappresentata come Bona Dea

Nell’Italia pre-romana diversi miti sono confluiti in quello di Bona Dea foeminarum. Una vittima delle dure leggi patriarcali delle popolazioni dell’Italia centrale viene divinizzata e diventa un modello della virtù muliebre. Ecco il primo articolo di una serie con cui l’antropologa Maria Concetta Nicolai racconterà ai lettori di CulturaIdentità le radici ancestrali della nostra civiltà [red]

Molti secoli prima che Romolo tracciasse sul Palatino il solco della Roma quadrata, il Septimontium era abitato da diverse tribù (gentes) di Latini (da latus – “gli abitanti del luogo largo”), popolo delle migrazioni indoeuropee che, alla fine del II millennio, si era stanziato nella regione centrale della penisola italiana che, da loro, prenderà il nome di «Vetus Latus» (il Lazio antico).

Mescolandosi con gli aborigeni della Saturnia Tellus, dediti alla pastorizia e all’agricoltura, avevano dato inizio ad una primitiva organizzazione di città-stato, le curiae rette da un re che, in coppia con una figura femminile indigena, regolava la vita comune su principi (Sacra) facenti riferimento a divinità totemiche (dii indigentes – gli dei del luogo).

Sull’Aventino subsassano, zona boscosa ricca di sorgenti, di anfratti e di grotte, regnava Faunus, figlio dell’arcaico Mamerte del Camen Saliare, mitico interprete della fecondità animale e vegetale. In cima al monte, in un rustico tempio posto nella radura (lucus), in mezzo al bosco sacro (nemus) viveva la Virgo regia, la castissima Fauna fatua (a seconda delle varianti figlia, sorella o promessa sposa di Faunus) che mai nessun uomo aveva visto in volto e che era dedita al vaticinio (fatua: participio passato del verbo for – faris, predire, profetare). Al riguardo è appena il caso di ricordare che Romolo, prima di fondare la città, si recherà proprio sull’Aventino per dedicarsi all’osservazione augurale del volo degli uccelli.

Continuando la storia che stiamo narrando, si aggiunge che il luogo, precluso al sesso maschile, è custodito da una veneranda vecchia (alma anus) addetta ai Sacra, come rivela la benda purpurea che le cinge il capo, e accoglie, insieme alla Virgo regia, uno stuolo di ridenti fanciulle che sembrano in attesa di uno sposo che infatti non tarda ad arrivare, impersonato dalla emblematica figura di Ercole assetato e fecondatore.
L’eroe che, nel foro boario ai piedi dell’Aventino, sta innalzando l’Ara massima per solennizzare il recupero delle sacre vacche, sottrattegli furtivamente da Cacus, altra arcaica figura di re pastore dedito all’abigeato, tormentato dalla sete, s’incammina alla ricerca della sorgente del torrente Murcia che s’impantana nella vicina omonima valle. Di particolare rilevanza, circa l’antichità del mito, sono il riferimento a Murcia, arcaica divinità italica preposta alle depressioni paludose, com’è appunto quella che separa l’Aventino dal Palatino e al suo fossato, non più esistente già in età repubblicana, ma che in tempi più antichi confluiva nel Tevere dove il suo corso incrociava la via Salaria. Era questo infatti il punto conclusivo del tratturo paleolitico, dedicato all’Eroe delle dodici fatiche, lungo il quale i Vestini transumanti, insieme agli armenti e ai caci, trasportavano nel Lazio il sale della costa adriatica, estratto dalle saline di Angulum, (oggi Marina di Città Sant’Angelo).

Dunque Ercole mosso dalla sete, attratto anche dal riso delle fanciulle che gli giunge dalla cima dell’Aventino, arriva nel lucus e, nonostante il divieto intimatogli dalla vecchia guardiana, che gli ricorda che quel luogo sacro è riservato alle donne, vi penetra abbattendo con una spallata il recinto. Quindi si disseta e, conquistato da tanta bellezza, si congiunge con la Vergine regia da cui nascerà un eroe fondatore, secondo alcuni Evandro il signore del Palatino, secondo altri Latino o infine Turno, il virgiliano antagonista di Enea.
«Sacra diesque canam et cognomina prisca locorum» dirà Properzio, attingendo liricamente (Elegie IV.9) alla variante latina della ierogamia di Ercole con una vergine, mito diffuso anche tra altre gentes italiche (con Cupra tra i Piceni, Marica tra gli Irpini, Mefite tra i Campani, Damia tra i Bruzi, Mlacuca tra i Vestini, etc.).

Su di esso germoglia, tra la fine dell’VII e l’inizio del VI secolo, a.C. per fini politici, quello squisitamente romano di Fanua fatua, che, dopo essere stata sorpresa in uno stato di evidente ebbrezza e uccisa a bastonate dal pater familias per aver bevuto il vino, diverrà Bona Dea Foerminarum. La mutazione del nome costituisce un valore che va ben oltre quello lessicale, poiché rappresenta il cambiamento fisico e di funzione della divinità che da vergine vaticinante diviene l’archetipo della Matrona romana.
Come l’unione sessuale costituisce di fatto una mutazione di status, da quello verginale e a quello fecondo di donna adulta, cosi da Fanua-virgo, sorge Bona dea modello della donna libera, (ingenua: tradotto letteralmente di buona famiglia) che non beve il vino, genera figli (spes nascendi) ed è «univira domisea lanifera» (cfr.H. H. J. Brouwer, Bona Dea. The sources and a description of the cult, E. J. Brill, Leiden, 1969. pp.324 – 326).

Secondo un’interprepazione antropologica contemporanea la trasformazione avverrebbe in seguito all’unione con Ercole e la successiva maternità eroica da cui discenderà la progenie dei fondatori di Roma. L’uccisione, da parte del pater familias per essere stata sorpresa a bere il vino, sarebbe una aggiunta successiva per dare un’origine mitica e una base religiosa alla Legge romulea (mos maiorum) che interdiceva il consumo del vino alle donne, affidando il giudizio e l’eventuale esecuzione della pena al pater familias (cfr. Attilio Mastrocinque, Bona Dea and the Cults of Roman Women, Franz Steiner Verlag, Stuttgart 2014).
La norma giuridica si collega ad un fatto memorabile realmente accaduto intorno al VII-VI secolo a.C. di cui ci danno notizia alcuni storici di sicura fede, tra i quali Quinto Fabio Pittore, (Annales, seconda metà del III secolo a. C.) Valerio Massimo (Factorum ac dictorum memorabilium, 31 d.C.) e Plinio il vecchio (Naturalis Historia, intorno al 70 d.C.).

Secondo il loro racconto Egnatius Mecennius, aristocratico (rex) di Cures Sabini, avrebbe ucciso la moglie, colpendola con un bastone, perché si era appropriata delle chiavi della cella vinaria ed aveva bevuto il vino. Tutti i documenti sottolineano che l’uomo solo non ebbe alcun accusatore, ma neppure alcun critico, poiché si ritenne che la donna avesse pagato con una pena esemplare (poena capitis) la colpa di aver violato la regola della sobrietà muliebre. Secondo le fonti, pertanto, nessuno trovò da ridire sul fatto che Metennius avesse punito con la morte la donna che aveva bevuto vino, indicando che l’azione, corrispondente ad una norma consolidata nella società sabina, era rispettata unanimemente. Da essa derivano la citata lex Romuli, promulgata però più probabilmente dal successore e sabino Numa Pompilio, e lo jus osculi, singolare diritto del pater familias e di tutti gli uomini adulti della famiglia di baciare le donne di casa, anche ma non solo, per accertarne la sobrietà al vino. (cfr. Roberto Fiori, Il divieto per le donne di bere vino: legge o precedente giudiziale? in Lawine. Commercio e consumo del vino nel mondo antico (Atti del Simposio internazionale, Napoli 17-18 gennaio 2019) Jovene editore, Napoli 2020, pp. 39-58).

Al riguardo è appena il caso di evidenziare che l’osculum (da os – piccola bocca) segno di scambievole affetto tra parenti, è sostanzialmente diverso dagli appassionati «basia milla, deinde centum, deinde usque altera mille» che l’innamorato Catullo richiede alla spregiudicata Clodia. (cfr. Carmen V). Il mito di Bona dea foeminarum, che non è un nome proprio ma una circonlocuzione sotto cui si nasconde quello segreto di una divinità che presiede un culto iniziatico (Plutarco, Quaestiones romanae XX) sorge e si diffonde dopo che i fondatori di Roma, avevano risolto il problema demografico della città, rapendo le figlie dei Sabini, invitati con l’inganno alle Consualia di luglio, festa agraria dedicata a Conso divinità indigena preposta alla germinazione e al raccolto frumentario (Tito Livio, ab Urbe condita I.9).

Infatti, se per i Quiriti il modello mitico e morale di riferimento era la figura di Romolo-Quirino (delle cures ovvero governo cum vires), figlio della vestale Rea Silvia, unitasi con il Mamerte del Carmen saliare (Festo, De verborum significatu, passim) ora occorreva trovare un altrettanto valido modello per le orgogliose ed emancipate sabine, intanto divenute «uxores matresque romanae».
Nulla parve più adatto dell’antichissimo culto femminile di Bona dea, praticato da generazioni di donne di ogni ceto che, da madre a figlia, frequentavano il suo santuario implorandone la protezione per le gravidanze, il parto, l’allevamento della prole e una vita familiare serena. L’aedes sull’Aventino, provvista di una famacia ben fornita di preparazioni medicinali e rimedi tradizionali per i disturbi dell’apparato genitale femminile, ma anche per alcune debolezze psichiche della sensibilità muliebre, funzionava infatti come un centro di cura con ambulatori e alloggi per eventuali ricoveri, gestito da anziane ed esperte levatrici, in grado di aiutare e sostenere fisicamente e moralmente, le giovani romane al primo impatto con la vita coniugale e la maternità.

La stessa rappresentazione di Bona Dea, così come appare nei rari esempi iconografici pervenutici si prestava allo scopo, raffigurata com’è nell’aspetto solenne di una matrona seduta in trono, vestita con tunica e stola stretti dalla zona, una cintura adatta anche a sorreggere il seno, con il capo coperto dal flammeum, il tradizionale velo sotto il quale appare la capigliatura divisa in due bande che si raccolgono in un nodo sulla nuca, e che distingueva la mulier dalla virgo in capillis, definizione giuridica in uso fino ai nostri giorni, per indicare la fanciulla che a segno della sua illibatezza porta ancora i capelli sciolti sulle spalle e il capo scoperto. Così si farà raffigurare Livia Drusilla Claudia, moglie di Ottaviano Augusto e madre di Tiberio, che provvederà a restaurare in forme monumentali il santuario agreste sull’Aventino, intanto divenuto nazionale (pro salute populi romani).

Allo stesso modo, rilanciandone il culto, rappresentato simbolicamente dalla cornucopia colma di frutti, che la dea regge con la mano sinistra, e dalla patera in cui si abbevera il serpente iatrico che le si attorciglia sul braccio destro, Ottaviano Augusto, nell’ambito della riforma morale della vita pubblica sull’exemplum moris maiorum, nel 18 d.C. emanerà la Lex Iulia de adulteriis coercendis, di cui la vittima più illustre sarà Vipsania Giulia Agrippina, la Julia minor, sua nipote, esiliata a morire in povertà, solitudine e nel divieto vinum bibendi, alle Isole Tremiti (cfr. Eva Cantarella, Adulterio, omicidio legittimo e causa d’onore, in diritto romano. edizioni Cisalpine, Torino 1972).
Della lex julia, del culto e del simulacro di Bona Dea, del suo santuario subsassano sarà un illustre interprete, con una ampia letteratura giuridica e filosofica pervenutaci integralmente, Marco Tullio Cicerone, tra l’altro testimone diretto dello scandalo che coinvolse la moglie di Giulio Cesare nel 61 a.C. proprio nel corso della festa invernale di questa divinità.
Ma di tutto questo si parlerà del prossimo articolo dal titolo Bona dea. l’immagine, il culto femminile e politico.

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