Marco Conidi: “Springsteen che canta Califano: ecco il mio riferimento”

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Il cantautore romano Marco Conidi conduce con Lorella Boccia “Musica Mia” su RaiDue: un giro d’Italia in sedici puntate alla scoperta della nostra musica folk

È uno dei cantautori più amati per la sua musica vera, sincera, «de core»: Marco Conidi rappresenta il folk italiano da tanti anni con una serie di progetti vincenti, che spopolano in tutto il mondo. Basti citare l’Orchestraccia di cui è membro sin dalle origini insieme a molti altri che di volta in volta si aggiungono a questa preziosa realtà, capace di fare conoscere la musica tradizionale romana ovunque, unendola con le tendenze canore più contemporanee. Marco Conidi è capitolino doc, ma soprattutto romanista: la sua «Mai sola mai» è diventata ormai da tempo l’inno ufficiale della curva giallorossa, che ogni domenica intona con passione «A te che sei la mia Roma, ovunque tu sarai, mai sola mai».

Il background di Conidi è di quelli importanti: autore e collaboratore per musica di un certo livello come quella di Paola Turci, Luca Barbarossa, Rossana Casale, Sergio Cammariere, nella sua carriera ha partecipato anche al Festival di Sanremo: era il 1991, con Bungaro e Rosario Di Bella cantava «E noi qui»e già lì si capiva l’emozione che quella voce graffiante è in grado di creare. Riscopertosi attore («Buongiorno papà», «Non ci resta che il crimine», «Romanzo Criminale», «Rocco Schiavone», giusto per ricordane alcuni), Marco Conidi ora è anche conduttore.

«Musica Mia» è infatti il programma che presenta ogni domenica alle 14 su Raidue insieme a Lorella Boccia: sedici puntate in giro per l’Italia fra tradizioni locali e canore, in 50 minuti che diventano una vera e propria piacevole lezione di storia e cultura con grande intrattenimento. «Andiamo a cercare chi ha inventato qualcosa, chi lo porta avanti ora e le nuove generazioni che lo continueranno a fare tra un po’ di anni», ammette Marco. «Facciamo un giro pazzesco andando proprio sull’uscio di casa della gente. Roma, Napoli, Genova, Bologna, Modena, il Salento, quindi Milano, Torino… Stiamo scoprendo l’Italia come meglio non potremmo fare».

Come è nata l’idea di «Musica Mia»?

Andando in giro con l’Orchestraccia per tutta Italia: mi accorgevo della grande ricchezza e infinita bellezza che il nostro territorio possiede. È una nazione unica, in cui sono racchiuse tante diversità che ci migliorano e in cui in realtà ci sono moltissime somiglianze.

La musica unisce insomma Nord, Centro e Sud.

Assolutamente. Più viaggi e più ti rendi conto che l’Italia è corta e indivisibile nel bene e nel male: questo mi affascina molto e trovavo andasse raccontato. La nostra tradizione è regionalmente ricca, ma ha punti in comune con tutto.

Ti riferisci all’anima europea dell’Italia?

Certo, perché in effetti geograficamente e culturalmente includiamo un po’ tutto. Ma non penso solo a quella. Ci sono tanti punti di incontro anche tra la stessa musica e la poesia e la letteratura, musica: una pizzica somiglia al saltarello, modi di dire di Gioachino Belli hanno lo stesso sapore di quelli di Sciascia.

Però sembra ci sia una tendenza a volere abbandonare continuamente il passato a favore di generi musicali che non ci appartengono.

In realtà questo accade molto meno di quanto non possa apparire. Il folk vero è un linguaggio che si evolve continuamente: le nuove generazioni cantano in dialetto molto più di prima. Pensiamo solo alle cover che sono state portate quest’anno a Sanremo: si è cantato in ligure, napoletano e romano. Forse anche senza saperlo, ci si rifà molto al passato.

E così tutto questo è diventato materiale per «Musica Mia».

L’aderenza al nostro territorio mi incuriosiva: la Rai, da vero servizio pubblico a cui troppo spesso non viene riconosciuto questo ruolo, in modo coraggioso mi ha dato la possibilità di mettere in atto un programma come «Musica Mia», che puntasse sulla qualità e ai contenuti senza pensare agli ascolti. Anche se poi, in realtà, si coinvolge sempre buona parte del pubblico.

Anche perché c’è grande verità in quello che viene raccontato: spesso si nota la tua emozione quando intervisti gli ospiti.

È vero: io non sono un conduttore abituale, quindi essenzialmente porto il mio background incontrando altri musicisti e sono il primo a viverne quanto raccontano: vengono fuori cose mai sentite, come quando un senese parlava di Pino Daniele e a un certo punto ci siamo commosso insieme, o quando Gian Piero Reverberi mi ha parlato di Tenco, Stefano Bonaga ha ricordato Lucio Dalla. La canzone è raccontata con emozione, trasporto e sentimento, fornendo vere e proprie perle.

Cosa rappresenta per te, da romano, il dialetto?

Dirò una cosa che vale per tutte le città, anche per quelle come Roma che ha un intercalare più che un dialetto vero e proprio, ma è l’atteggiamento a fare la differenza. Il dialetto è il linguaggio del popolo, ha qualità come la capacità di sintesi, una musicalità molto più forte dell’italiano e una serie di immagini tra proverbi e aforismi che riassumono un sentimento collettivo, conosciuto benissimo da chi è aderente al territorio.

Tu hai calcato ogni tipo di palcoscenico, da Sanremo fino a quelli più locali. Quali ti fanno sentire più te stesso?

Entrambi, perché a contare è proprio l’atteggiamento. Se si porta qualcosa di qualità con passione, sentimento e capacità tecniche, la gente è curiosa e disposta ad ascoltare qualcosa di molto diverso da ciò che ascolta nella quotidianità. Io canto un romano comprensibile a tutti: quando non si capisce qualcosa, il dialetto ha comunque un suono internazionale, diventa onomatopeico, l’atmosfera quindi si cattura in ogni palcoscenico.

Il tuo è diventato un inno della curva romanista. Sei stato coraggioso, proponendo qualcosa di nuovo rispetto allo storico Venditti.

No, fermi tutti: il mio inno ufficiale resta «Roma Roma», guai a chi me lo tocca e ne sono molto contento. Mi è capitata più che altro una fortuna che dopo tanti anni che una canzone venisse così amata dalla gente. Devo ringraziare il pubblico, che sa apprezzare cose belle e scritte di cuore. E poi ho capito una volta di più una grande verità: la musica e il calcio sono le uniche occasioni dove le persone si abbracciano anche se sono estranei e lontani tra loro. È un’occasione di civiltà molto bella, per cui non contano ceti sociali, facendoci sentire tutti uniti.

Ti aspettavi quella popolarità?

Assolutamente no. Infatti, quando spesso mi chiedono perché non vado a Sanremo, io scherzando rispondo sempre che lo vinco ogni domenica allo stadio il mio Sanremo: quell’affetto della gente vale più di ogni altra cosa.

Il tuo punto di riferimento assoluto?

Non ce n’è uno solo. Potrei fare un paradosso: Bruce Springsteen che canta Califano: ecco, quello forse è il mio punto di riferimento.

Di entrambi hai cantato cover dal sapore più che mai internazionale.

Sì, è proprio quello che dicevo: la musica dialettale la cantiamo ovunque, in tutto il mondo. È quella la vera canzone che non morirà mai e a cui tutti si rifanno.

La tua città identitaria sembra scontata.

Chiaramente è Roma, ma attenzione, non è solo Roma. Sono innamorato dell’Italia intera, per questo ho voluto girare tutta la nazione senza pensare a un programma limitato al raccordo anulare. Mi piace meravigliarmi davanti a tutta l’Italia, punto di riferimento assoluto. Certo, Roma è una città molto inclusiva dove chiunque ci abiti diventa romano di adozione a prescindere da dove arrivi: in questo senso deve essere d’esempio. A Bologna si dice: quando sei a Bologna sei di Bologna anche se non sei di Bologna. Ecco, vale anche per Roma.

Viva l’Italia intera dunque.

Assolutamente. Io ovunque vada «mi sposo» col luogo dove mi trovo: siamo in una perla di Paese straordinario, solo gli italiani a volte non si rendono conto che è di una bellezza struggente. Ecco, l’obiettivo di «Musica Mia» è anche fare rinascere proprio questo sentimento, senza guardare sempre all’estero. Anzi, sono loro che guardano a noi.

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