Referendum, la Waterloo delle sinistre

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Doveva essere la spallata al governo, la conquista ex nihilo di due milioni e mezzo di “nuovi elettori” e il rilancio della sinistra fucsia-gialla in Italia. Il referendum sul lavoro e la cittadinanza è diventata invece la Waterloo del fronte arcobaleno, immigrazionista e ultraeuropeo.

I dati sono impietosi: l’affluenza supera di un soffio il 30% ed è ben lontana da quella soglia psicologica del 40% che avrebbe fatto gridare a una “vittoria mancata” (e quindi perseguibile per altre vie) alle sinistre.

Ma c’è di peggio: dei cinque quesiti, quelli sul lavoro hanno ottenuto una rispettabile percentuale di sì, giunta a sfiorare il 90%, mentre quello sulla cittadinanza – a parità d’affluenza quasi assoluta – si ferma a uno scarso 65%. Così è miseramente fallito quello che era il vero obbiettivo della sinistra, per il quale è stata disposta ad auto-sconfessare un trentennio di proscinesi all’ideologia liberista come “polpetta” dentro cui nascondere i cocci della legge sulla cittadinanza, un vero e proprio cavallo di Troia per far ingoiare agli elettori la politica delle porte aperte verso la sostituzione etnica sulla falsariga di quanto avvenuto nella Gran Bretagna fabiano-blairiana nell’ultimo trentennio.

Essendo il tema dell’immigrazione il vero schwerpunkt della campagna referendaria (pensiamo a +Europa, che si è schierata anima e corpo su questo quesito fino alla sceneggiata con Riccardo Magi vestito da fantasmino in Parlamento…) possiamo tranquillamente dire che esso ha raccolto davvero tutto, ma proprio tutto l’elettorato di sinistra liberal nel nostro paese, raschiando il fondo del barile.

La cifra del dibattito infatti era cristallizzata in un “voteranno solo i sì, i no andranno al mare”. Il fatto che fra coloro che hanno ritirato la scheda vi sia stato un delta così grande fra i primi quattro quesiti e l’ultimo implica che anche l’obbiettivo di mobilitare attorno a temi wokeisti una certa quantità di ex astenuti con la scusa dei quesiti giuslavoristi è miseramente fallito.

In altre parole, il fronte lib-dem col referendum sulla cittadinanza non ha fatto altro che contarsi, e la somma finale è (per loro) apocalitticamente bassa: dei 14 milioni e rotti di elettori che hanno preso la scheda sulla cittadinanza, solo 9 milioni e 150 mila malcontati sono quelli che hanno votato “sì”. Per paragone, alle ultime politiche, il blocco delle sinistre ha rastrellato alla Camera 7 milioni 340 mila elettori, che si presume avranno approvato il quesito recandosi alle urne nella quasi totalità, per consolidato trinariciutismo d’area. Ne consegue che il M5S (4 milioni e 330 mila elettori nel 2022) ha fornito un numero relativamente basso di “sì” alla riforma della cittadinanza. Eppure i pentastellati avrebbero dovuto rappresentare un buon bacino di sostenitori, essendo stato il movimento di Grillo a spalancare le porte all’invasione etnica nel 2013 attraverso l’emendamento di Maurizio Buccarella e Andrea Cioffi per abolire il reato di immigrazione clandestina.

Non è da sottovalutare anche l’ipotesi che due milioni di voti favorevoli in esubero rispetto ai votanti di sinistra dell’ultima tornata possano provenire dall’astensionismo e – in minima parte – da quella “buona destra” che si spertica sempre per fare virtue signaling nella speranza d’essere accolta nei salotti buoni.

Insomma, se il “campo largo” alle ultime elezioni ha riunito 11 milioni e 700 mila votanti, almeno due milioni e mezzo di costoro ha votato contro (col “no” o con l’astensione) al principale e più qualificante punto del dibattito, quello sulla cittadinanza. Falso è dunque il proclama di Francesco Boccia (PD) secondo cui gli elettori andati a votare “sarebbero più di quelli che hanno sostenuto il governo Meloni nel 2022”, poiché il vero discrimine era solo sul quesito referendario, mentre quelli giuslavoristi erano condivisi da una fetta di elettorato della destra sociale da lunga pezza: gli elettori che premiarono il centrodestra nel 2022 furono oltre 12 milioni 300 mila, contro i 9 milioni del “sì” alla cittadinanza facile.

Nel complesso gli ultras europeisti e i fabiani di casa nostra hanno pertanto perso la loro scommessa: con un tema così potentemente mobilitante, e identitario per la loro area, (basti pensare alle sommosse che in queste ore si stanno verificando il California per contrastare le politiche di Trump sulla remigrazione dei clandestini) essi non sono riusciti nemmeno a sfondare la soglia del 20% del totale dell’elettorato. È sfumato pertanto l’obbiettivo di mobilitare gli scontenti e i delusi, confluiti nell’astensionismo.

La vera rivelazione, come detto, è che il fronte dei “sì” è stato compatto nei quesiti giuslavoristi, raccogliendo così anche parecchi milioni di voti provenienti tanto dalla sinistra rossa e ormai delusa e dalla destra sociale, segno che questa area è vitale e ha un suo peso non irrilevante, anche se scarsa voce. Ha così ottenuto una sua piccola ma importante vittoria quel pugno di opinionisti – per lo più di partiti e movimenti non rappresentati in Parlamento o sui media – che avevano invitato a votare “sì” sul lavoro ma recisamente “no” sulla cittadinanza, proprio allo scopo di dare un doppio segnale alla sinistra (“avete rotto le scatole con le frontiere aperte”) ma anche alla maggioranza (esiste un’area rossa e rosso-bruna che non è rappresentata).

Il fronte wokeista in Italia dunque mangia la polvere e il nostro paese si conferma essere il ventre molle di quella Festung Europa arcobaleno che l’internazionale dem sta cercando di costruire ora che gli Stati Uniti sono diventati trumpiani. Il ferro è dunque caldo e va battuto ora. Il peggior errore che può fare in questo momento la maggioranza è covare la gloriuzza di una vittoria ottenuta votando coi piedi e non approfittare per un contropiede a tutto campo proprio con una stretta su accoglienza, cittadinanza facile ed espulsioni: tutti all’attacco, pure il portiere!

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