Non è vero che la didattica a distanza (DAD) non è scuola e che sono state ore di insegnamento perso. Né è vero che è coincisa con un vuoto educativo.
Il fatto che ci siano problemi di connessione e che non tutti gli studenti hanno accesso a dispositivi adeguati per seguire le lezioni è un altro conto. D’altra parte, gli sforzi maggiori del governo non sono andati nella direzione di migliorare le reti e di garantire l’accesso digitale a chi non l’aveva, ma nell’appalto di milioni di banchi a rotelle che avrebbero dovuto assicurare il distanziamento in aula. Tutto questo restando immutate le aule che dovevano ospitare quei banchi e sussistendo gravi problemi legati ai mezzi di trasporto che avrebbero dovuto portare i ragazzi a scuola.
- la buona scuola
C’è un punto sottaciuto o non valutato: la scuola ha continuato a svolgere la sua funzione formativa anche in DAD e con la DAD. Occorreva, infatti, in quei momenti drammatici arrivare agli studenti superando una distanza che non era solo quella fisica, ma anche quella tecnica dell’impreparazione ad una didattica sconosciuta ed inesplorata.
Ora, il fatto inoppugnabile è che si è realizzata una didattica innovativa. I docenti hanno dovuto inventarla e formularla dal nulla; qualcosa di inimmaginabile solo un anno fa. Hanno dovuto imparare da autodidatti come utilizzare programmi per videoconferenza o videoscrittura, come svolgere videolezioni, come utilizzare lavagne digitali per esercizi on line, come, in pratica, approntare un’offerta formativa che si avvalesse di mezzi sofisticati. Si dovevano dosare i tempi di spiegazione con la proiezione di materiali condivisi e c’era da cercare supporti digitali adatti. Si dovevano improntare strategie di verifica, specie scritta, perché fossero trasparenti e non falsate.
In quei momenti non si è badato ai compiti contrattuali e si è accettata la sfida. Storie di ordinario senso di responsabilità, si direbbe… ma non è così.
Si eccepisce che l’elemento della socializzazione è stato penalizzato.
E’ vero, ma fino ad un certo punto perché oggi la socializzazione fra i giovani avviene tramite gli strumenti digitali. Non è detto che sia un bene, ma c’era una pandemia e si raccomandava il distanziamento sociale. In ogni caso, come ha osservato Recalcati, è “stata una faticosissima supplenza all’impossibilità dell’incontro in presenza” (Orizzontescuola.it del 19 gennaio).
Il punto fondamentale era di non abbandonare il ruolo educativo sottraendosi al compito imprevisto e gravoso. Pertanto, ci si è dovuti reinventare, spesso a 50 o a 60 anni, cimentandosi con tecnologie informatiche complesse. Ma chi ha raccolto quella sfida ha fatto capire ai propri alunni che quel tempo tremendo era esso stesso una grande occasione per crescere nella responsabilità. La scuola, infatti, si fa con quel che si ha non con quel che si dovrebbe avere.
- Le rotelle mancanti
C’è una visione della scuola come asilo sociale che preme, ed è quella della scuola parcheggio, la cui latitanza mette a rischio equilibri familiari. Essa va spesso di pari passo con l’appiattimento al minimo del richiesto. Qui l’ideologia ha fatto disastri, danni culturali e psicologici, perché si è diminuita non tanto la quantità del sapere, ma la qualità, per assecondare l’apatia dei figli. E’ la scuola che deresponsabilizza, la scuola che mantiene nel limbo di un’adolescenza spesso protraentesi all’inverosimile, il frutto malato e attardato di un ‘68 studentesco cronicizzatosi nelle assemblee e nelle occupazioni, nelle autogestioni sempre più svuotate di contenuti formativi.
A questa ideologia evanescente si richiamano le preoccupazioni e le lamentazioni preficali per il disorientamento e il disagio, nonché per il rischio di dispersione scolastica, che, ad esempio, il ministro Azzolina esternava a Radio Rai l’11 gennaio. Esse enfatizzavano privazioni e sacrifici indotti dal Covid e dalla DAD. A questa ideologia si riconducono anche gli allarmati richiami di psicologi a danni psico-emotivi dei ragazzi.
Ma a costoro occorre rispondere che il rischio paventato è meno dannoso del guasto procurato. La vittimizzazione, il lamento demagogico per i poveri ragazzi cui sarebbe stata sottratta la scuola, costretti a studiare sulle scale dei loro istituti sprangati, al freddo e alle intemperie, non è detto che sia un bene sotto il profilo educativo. “Il lamento non ha mai fatto crescere nessuno”– ha sostenuto Recalcati in un’intervista su Repubblica. Viceversa, “insegnare davanti ad uno schermo significa non indietreggiare di fronte alla necessità di trovare un nuovo adattamento imposto dalle avversità del reale testimoniando che la formazione non avviene mai sotto la garanzia dell’ideale, ma sempre controvento, con quello che c’è e non con quello che dovrebbe essere e non c’è”.
L’insegnante che è riuscito ad integrare nel processo formativo il momento tremendo della pandemia ha, quindi, risposto al suo compito. Ne ha fatto un’occasione di crescita professionale, oltre la logica del “tutti promossi”, oltre la retorica dell’andrà tutto bene, e a fronte di una politica che non ha saputo adempiere al suo compito di garantire la sicurezza degli ambienti scolastici e l’adeguatezza dei trasporti al rischio pandemico.
Oggi che si sono riaperte le scuole, in una situazione sanitaria non certo migliore di marzo o di ottobre ed in assenza di vaccinazione, s’invoca il diritto allo studio, ma si espone personale scolastico, studenti e rispettive famiglie ad un rischio grave di contagio. Quegli stessi rischi di aumento della curva dell’epidemia, che avevano portato alla chiusura indistinta delle scuole su tutto il territorio nazionale anche dove non ce ne sarebbe stata necessità, oggi che i contagi sono aumentati e si è in presenza di varianti più contagiose, sono cinicamente sottovalutati.