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Fu “l’incastellamento” medievale a determinare l’identità del continente
Esiste un testo, cioè un fitto e robusto tessuto, che racconta la storia di quella che molti chiamano la vecchia Europa, e che forse è ancora l’unica Europa esistente: è il paesaggio costruito nei lunghi secoli dell’età di mezzo – dalla Senna al Reno, al di qua e al di là delle Alpi e lungo l’Appennino, tra valli e rilievi, tra radure e foreste – dai fenomeni di concentrazione di genti in villaggi, fortificazioni, castelli, comunità ecclesiastiche, movimenti di uomini che la storiografia ha variamente definito. Il paesaggio che vive il crollo dell’unità istituzionale
imperiale, fin dal V secolo, è descritto come paesaggio dell’abbandono: centri urbani che implodono, salvati dall’emergere del potere episcopale; strade e acquedotti che non corrono più dritti alla meta; campagne che perdono tanto i padroni quanto l’ortogonalità, colture che soccombono alla selva, la malattia che dilaga: profondi i solchi dei saccheggi, degli assalti e delle fughe. Si configura un paesaggio della dispersione, dove gli uomini faticano a insediarsi: essenziale e nuovo principio d’ordine è la rete dei grandi centri monastici benedettini, fondati su nuova regola fatta di parola e di pietra. Paesaggio della decadenza, ma anche, nei secoli dal VII in poi, della persistenza di strutture e spazi di derivazione antica: la fine della villa suburbana come centro residenziale e di produzione è già storia vecchia, il medioevo conosce la realtà della curtis del padrone e del massaio: la terra sfama chi comanda e chi lavora e di quel che avanza si fa tesoro e poco o nulla si commercia. L’archeologia, che affonda lo sguarda nella cultura materiale, insiste spesso nella ricerca delle tracce di una continuità negli usi, negli spazi, nelle tecniche; gli storiografi cercano invece nuove categorie periodizzanti. Di successo quella che Pierre Toubert, negli anni ‘70 del Novecento, chiama incastellamento, definita studiando le strutture degli insediamenti del Lazio e dell’Italia centrale. Un fenomeno divenuto paradigma per la lettura dei fatti sociali tra il X e l’XI secolo: la paura delle invasioni saracene e dei popoli orientali spinge le popolazioni a risalire i pendii e ad abitare le alture in insediamenti fortificati.
Si muovono le genti sparse nelle pianure che chiedono di poter recintare terreni da coltivare e da edificare: lo chiedono spesso agli ordini monastici che di quelle terre dispongono. Si spostano i padroni, che occupano luoghi strategici e chiudono nel castrum un loro privilegio. Le architetture dell’incastellamento segnano il paesaggio in modo meno standardizzato rispetto alla modulare presenza degli edifici monastici: terreni recintati, villaggi fortificati, castelli con villaggio, castelli fortezza sono le forme diversificate di un fenomeno multiforme.
Due esempi tra tanti, ben documentati, per capirci: da Nogara, nella bassa piana veronese, e da S. Vincenzo al Volturno, nell’Appennino molisano. Il primo, datato 920 d.C., vede una comunità di 25 uomini liberi chiedere di traslocare i propri beni nella parte di castello di pertinenza dell’Abbazia di Nonantola per 29 anni: per difendersi dagli Ungari, occupandosi di manutenere gli spazi, e per svolgere nei pressi delle mura taglio della legna e pascolo. Nello stesso luogo, dopo appena 16 anni e il dilagare delle scorrerie, la stessa comunità stringe con l’abbazia altro accordo: si resta nel castrum a tempo indeterminato, le costruzioni si fanno di pietra più che di legno, nasce un borgo intorno al castello e il lavoro si fa negli orti recintati. L’insediamento si è fatto più complesso, il potere del castello, in questo caso in capo all’abate, attira rustici e lavoranti che fanno comunità. Nel secondo caso, tra IX e X secolo, nei pressi di uno dei più importanti centri religiosi del Medioevo europeo, alle sorgenti del Volturno, i monaci stessi e i famuli, che per il monastero lavorano, hanno diritto a fortificare e a fondare piccoli nuclei abitativi, rubando spazio alla roccia e al bosco per avere casa e mestiere. Il paesaggio si arricchisce di piccoli centri residenziali che sono anche un opificio diffuso. Poiché la terra è potere, l’occupazione di spazio è già un fatto giuridico: il fenomeno si intreccia con la trasformazione delle curtes che si aprono ai traffici, con la distribuzione delle immunità da parte del potere imperiale, con il diffondersi del potere di banno che surroga la mancanza di una reale giurisdizione pubblica: tutti strumenti di governo delle genti e del territorio, ma nello stesso tempo semi di conflitto, che istituiscono forme di potere molecolare, parcellizzato, spesso generato dal basso, per cui il mero possesso diventa diritto.
Complementare più che alternativo all’idea di incastellamento è il processo di inclusione individuato da Robert Fossier: nei primi due secoli del secondo millennio, gli insediamenti si concentrano, più che intorno alle strutture castrensi, in borghi dove il potere agglutinante è costituito dalla parrocchia e dal cimitero, comunità dei vivi e dei morti, traccia dei piedi e ombra delle anime, che contribuiscono a fare più denso il paesaggio delle aree interne dell’Europa profonda. L’impronta culturale di questo paesaggio è stata enorme: radicata è l’estetica di un medioevo dei borghi e dei castelli che sopravvive nell’immaginario collettivo e nell’industria del prodotto turistico contemporaneo. Meno radicata è l’idea che questo medioevo sia tanto politico quanto agrario, tanto signorile quanto rurale. Resta anche la suggestione di un tempo in cui la sfida per la sopravvivenza dei primi e degli ultimi ha assunto la forma impervia dell’itinerario, dell’aspro pellegrinaggio dalla terra al cielo.
L’età moderna ha trasformato questo paesaggio, svuotandolo innanzitutto della sua vitalità giuridica, arrestando quella energia sommersa che irradiava potere e diritto di esistenza fin nei luoghi più impervi del territorio, normalizzandone l’esistenza nelle impalcature di stati e nazioni. Trasformata anche la percezione dello spazio: di quella che era l’esperienza del paesaggio medievale – un modo di costruire l’ambiente vivendolo – resta poco nell’idea di progettazione del paesaggio moderna, esponenzialmente potenziata dalla tecnica contemporanea.
Resta l’abbandono di troppi luoghi delle nostre aree interne, un tempo produttivi e vivi, scivolati nell’inattività dei lavori estinti o trascinati nella frenesia del turismo e dei lavori finti.
Resta la sospensione di un mondo fisico, faticoso, che è stato vivo e forte, tra due prospettive: essere riabitato grazie alle tecnologie contemporanee che annullano le distanze, ma neutralizzato come un’archeologica e sofisticata navicella spaziale; o, come scrive Houellebecq al termine di “La carta e il territorio”, occultarsi dove “tutto si placa, non ci sono che erbe agitate al vento e il trionfo della vegetazione è totale”.