Lo sport non ci sta: chiudere è un errore

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Provvedimenti approssimativi e scarsa conoscenza del settore rischiano di cancellare le possibilità di ripresa

di Flavio De Marco

Lo sport è salute, lo dice la scienza da sempre. Eppure, a parte i professionisti del calcio e pochi altri, lo sport chiude.
Anche coloro che non appartengono alla schiera di virologi e infettivologi devono poter esprimere un’idea, anche critica, dei provvedimenti presi per arginare la pandemia in corso, e delle conseguenze che avranno sul lungo termine, è quello che sta avvenendo nell’ambito della discussione sulla chiusura degli impianti sciistici. Talvolta, tuttavia, facendo ciò si rischia la ben nota strumentalizzazione, un prezzo che molti sono disposti a pagare pur di non vedere sopraffatte le proprie libertà individuali, compreso il diritto di praticare lo sport.

Covid e sport di contatto: prevenzione o chiusura?

Lo sport di “contatto” non doveva chiudere, o almeno non così. Più controlli, più profilassi, maggiori investimenti nella sanità: “prevenzione” doveva essere la parola d’ordine per non morire d’inedia. Simili rilievi non vengono fatti perché si è miopi di fronte all’ondata dell’infezione, ma anzi perché si è osservato con spirito critico e realistico l’inadeguatezza della risposta sanitaria, economica e sociale.

Inutile commiserare il defunto Stato Sociale, indebolito in tutte le sue strutture dai governi liberaldemocratici e socialdemocratici che si sono susseguiti durante la cosiddetta “Seconda Repubblica”, tuttavia oggi gli italiani pagano le conseguenze di questi malgoverni. Le debolezze strutturali di chi ci governa in questi mesi hanno penalizzato tutte le industrie, compresa quella estremamente eterogenea dello sport: vanno a casa tanti lavoratori di ogni livello e nel mondo dei dilettanti si spegne anche la possibilità di vivere pienamente un percorso ambivalente, non “dopolavoristico” e neanche strettamente ludico. Oggi anche lo sport insorge, benché più silenziosamente di altri.

Nonostante i problemi del settore fossero ben noti, non sono stati attuati gli investimenti necessari. Al di là delle valutazioni politiche, è utile ammettere che regna molta confusione nelle stanze del governo, e questa approssimazione riflette i provvedimenti presi.
Non è necessariamente impossibile la convivenza tra misure restrittive e la continuità dello sport nel suo complesso, anche grazie a strumenti come gli esami diagnostici. Se, infatti, non è ancora disponibile la soluzione definitiva data dal vaccino, sono però a portata di mano tamponi molecolari, rapidi e test sierologici, utili a tenere vivo un settore che ha necessità del contatto. Pertanto, chiudere è stato un errore grossolano che in termini di costi/benefici non servirà a tenere la curva del contagio sotto controllo. Il calcio va avanti a stento: nella serie cadetta si ipotizzano, sul piano finanziario, scenari apocalittici se si dovesse andare avanti senza modificare gli assetti generali.

Volendo mettere da parte l’economia, concetto di primaria importanza è proprio il valore fondante dello sport in sé a dover essere difeso. Si tratta di un settore vitale per il benessere psicofisico di ogni cittadino. È quindi auspicabile maggiore buon senso da parte di chi governa, evitando gli eccessi e gli abusi di potere che hanno caratterizzato il primo lockdown, quando era comune l’accanimento, anche mediatico, contro runner e sportivi amatoriali. Volgendo lo sguardo alla Puglia e al Salento, zona arancione, appare tutto ancora più controverso e paradossale: occorrerà uscire quanto prima da questa situazione per poter tornare a vivere pienamente… Senza malinconia e stupidità. 

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