Gridano all’emergenza democratica, ma hanno usato il Quirinale per sovvertire gli esiti elettorali e riformato la Carta a loro piacimento; è una sinistra un po’ strabica…
Il regime, il regime! La Costituzione, la Costituzione! Liliana Segre, insultata nei comizi dai pro-Pal che ingrossano le fila di una Sinistra che libera Ilaria Salis pluripregiudicata e odia gli ebrei pluriperseguitati, ha gridato contro il premierato e tutti a osannarla. Ben 180 costituzionalisti le si sono stretti attorno. Che fossero zitti e muti quando lei ha egualmente tuonato: “Usare la parola genocidio a proposito delle azioni d’Israele è una bestemmia”, è un particolare trascurabile nella retorica anti-fascista. Che ha avuto la sua messa cantata ieri a Roma in pizza Santi Apostoli (è vicina al Parlamento, ma è contenuta, serve a evitare figuracce da mancata partecipazione popolare) celebrata dalla sacerdotessa dei diritti Elly Schlein (Pd) con i vari Fratoianni, Bonelli e perfino Giuseppe Conte. L’intento dichiarato è fermale Giorgia Meloni che “attraverso il Governo sta forzando la mano e prova a minare le basi democratiche della nostra Costituzione” con quel popò di attentato che sono la riforma del premierato e l’autonomia differenziata. Perché le “riforme costituzionali non si fanno a colpi di maggioranza”.
Che il titolo quinto – quello appunto sulle Regioni – sia stato cambiato dal centrosinistra in spregio agli altri ai tempi del duo Rutelli-Veltroni non conta. Eppure Franco Bassanini – fido scudiero degli interessi Pci-Ds-Pds-Pd da ministro e da presidente di Cdp – così la presenta: “La più grande riforma costituzionale finora approvata dall’entrata in vigore della Costituzione”. Sul premierato si sgolano perché riduce “sia i poteri del Parlamento che le prerogative del presidente della Repubblica”.
Dunque la Meloni va fermata. Hanno ragione i piazzisti della Costituzione: la Meloni va fermata. Perché la vera riforma dovrebbe essere l’elezione diretta del presidente della Repubblica. È strano che i 180 costituzionalisti guardia d’onore di Liliana Segre abbiano taciuto di fronte alle rivelazioni fatte dal cardinal Camillo Ruini a proposito di Oscar Luigi Scalfaro, il signor “noncistò”. L’alto prelato che per 17 anni ha guidato la Chiesa italiana, a 30 anni esatti dai fatti ha rivelato: “Il presidente convocò me il cardinale Angelo Sodano e monsignor Jean-Louis Tauran e ci chiese di aiutarlo a far cadere il governo di Silvio Berlusconi. La nostra decisione di opporci a quella che ci appariva come una manovra, al di là della indubbia buona fede di Scalfaro, fu unanime”.
Tutti zitti di fronte alla rivelazione che il Quirinale aveva tramato per coartare la volontà del popolo sovrano. Si è tralasciato volutamente di approfondire il perché e il come Oscar Luigi Scalfaro – quello dello schiaffo alla signora troppo scollata e dunque assai incline a considerare la Chiesa potente alleato – ha agito, ma soprattutto il quando. Tutto avviene nel ’94, all’indomani di Mani Pulite quando Achille Occhetto segretario del Pds che manteneva – a proposito delle polemiche con Giorgia Meloni – nel simbolo bene in vista la scritta Pci e la falce e il martello perde con la sua “gioiosa macchina da guerra” le elezioni conto Silvio Berlusconi. Si capisce – dopo le rivelazioni del cardinal Ruini – perché Mani pulite lasciò indenne il Pci e si capisce perché l’invito a comparire – in pieno G8 – fu recapitato via Corriere della Sera dalla procura di Milano il 22 novembre 1994.
Ciò che non era stato possibile coinvolgendo i rappresentanti di Cristo fu possibile coinvolgendo i rappresentanti della legge che sovente si sentono – quando si parla di certe Procure – un gradino sopra al Nazzareno (e non si parla della sede del Pd). Come si possa considerare il Quirinale arbitro e non attore, come si possa ritenere che da Mani Pulite in poi non vi sia un filo rosso che tesse una trama di potere è davvero difficile da comprendere. E come non vedere che Oscar Luigi Scalfaro ha costituito un precedente. Il 5 agosto del 2011 Mario Draghi firma, con Jean Calude Trichet in procinto di lasciare la Bce, la famosa lettera di messa in mora del Governo italiano. Non sfuggirà che Mario Draghi nel ’92 comincia l’opera di privatizzazione che con l’avvento di Berlusconi rischia di fermarsi o di far si che al banchetto non partecipino gli amici. Egualmente nel 2011 Giulio Tremonti – ministro del Tesoro del Governo Berlusconi – rischia di vincere la battaglia sugli Eurobond e di far saltare lo schema per la spoliazione dell’Italia.
Giorgio Napolitano – il tifoso dei carri armati sovietici portatori di democrazia mentre massacravano gli ungheresi – crea Mario Monti senatore a vita e di lì a poco nomina, a novembre, il suo governo tecnico. È la seconda volta che il Quirinale interviene a modificare l’esito delle libere elezioni. E la storia sempre con Giorgio Napolitano si ripete. Nel 2013 si vota: il Pd che raccatta su di tutto non riesce a vincere. Pier Luigi Bersani si ferma al 29,55% contro il 29,18 del Centrodestra. Eppure si susseguiranno tre governi a guida Pd con Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni fino al giugno 2018. Nel frattempo al Quirinale è salito Sergio Mattarella che di fronte alle dimissioni di Matteo Renzi il 7 dicembre del 2016 non indice le elezioni, ma affida il governo a Paolo Gentiloni: di fatto è un monocolore Pd. Quando si torna a votare nel 2018 il Pd prenderà il 18,8%. Il resto è storia recente: si è passati da un governo all’altro con formule di ogni tipo (l’ultima è stata la grande ammucchiata attorno a Mario Draghi) pur di non ridare la parola ai cittadini nella prospettiva – peraltro avveratasi – di una sconfitta della sinistra. Ma non diciamolo ai piazzisti della Costituzione!