Il mondo della scuola moderna ha forse dimenticato il buon senso e smarrito la retta via? Tranquilli, ci pensa Quintiliano.
Una mente eccelsa più di ogni altra nel mondo latino, a mio modesto giudizio, instancabile divulgatore, voce di centinaia di studenti, insomma, un vero e proprio docente d’altri tempi. Un nodo epocale insomma, detto hegelianamente, fautore ante litteram della gloriosissima scienza della pedagogia. Esperto di retorica e maestro di eloquenza, autore di straordinarie dispense per i suoi alunni, professore dall’invidiabile curriculum in quel della Roma imperiale, nonché uno dei primi pedagogisti della storia. Quintiliano è questo e molto di più.
Il primo a comprendere che la crisi della retorica – e dunque del modo di esprimersi dei Romani del suo tempo – fosse una conseguenza diretta della decadenza dei costumi morali e sociali che a quel tempo imperversava nell’Impero. Insomma, il primo a comprendere che dietro all’indebolimento di una morale sociale comportamentale salda e dietro alla decadenza assoluta (e dissoluta!) della rettitudine dei costumi, ormai perversi e consacrati ai più bassi appetiti, sarebbe per forza dovuta esserci un’unica grande innegabile causa: un sistema scolastico inadeguato e gestito da incompetenti in materia.
Insomma, che sorpresa! Praticamente, in duemila anni non è cambiato un bel niente, e i suoi scritti non solo si sono rivelati esatti e avvalorati dalle condizioni del suo tempo, ma tristemente applicabili a qualsiasi altra epoca storica successiva. Prodigio di natura? No, semplicemente una lungimiranza da far invidia al mondo, unitamente a una disarmante e ammirevole dose di modernità che pervadeva i suoi scritti e che riluceva nella sua mente geniale e sopra ogni altra illuminata. Ma andiamo con ordine.
A quei tempi la scuola non era così diversa da quella di oggi: Quintiliano, con il suo pungente acume e la sua straordinaria ampiezza di vedute, ne critica la vacua stravaganza, l’esercizio fine a se stesso, gli aspetti paradossali dell’insegnamento, l’ostentazione infondata e pomposa dei vezzi, la perdita totale dell’utilità sociale dei precetti acquisiti.
Lo so, caro Quintiliano, se solo venissi a fare un giro da queste parti, torneresti nella tomba a rivoltarti. Ci si riempie la bocca di classicità, quando più della metà di coloro che lo fanno non sarebbero degni neppure lontanamente di pronunciare il tuo nome e vantare la tua conoscenza. E nemmeno di definirsi tuoi degni successori e infangare in questo modo il buon nome di ciò che un tempo era la scuola.
E non finisce qui. È il primo infatti a formulare una vera e propria guida precettistica per il bravo insegnante, già, quella personalità che lascia un segno e che non ammette di trasmettere un nozionismo sterile ed evanescente, ma di penetrare nella mente dei propri piccoli alunni, lasciando per davvero quel “segno”. Una lezione di vita che nessuno sembra più voler recepire.
Nella sua opera più importante e apprezzata, l’Institutio Oratoria, si parte proprio da qui: il vero insegnante è colui che si prende cura dei propri allievi “con l’amore e i sentimenti di un vero padre, mai troppo serio poiché risulterebbe antipatico, mai troppo affabile poiché non verrebbe rispettato.”
Seguitando leggiamo ancora: “quanto più spesso ammonirà, più raramente punirà, ma allo stesso modo non finga di non vedere i difetti da correggere, restando tuttavia assiduo ma non eccessivo e sempre semplice nelle spiegazioni.”
“Se sarà troppo parco nelle lodi, farà venire a noia lo studio, ma se ne dispenserà troppe genererà eccessiva sicurezza.”
“Quando corregge gli errori, non si mostri aspro e offenda il meno possibile, perché il biasimare con astio allontana molti dal proposito di studiare: il buon maestro viene amato e temuto e sarà imitato perché tutti i suoi alunni saranno ben disposti verso di lui.”
A volte sembra davvero che l’abbia scritto qualcuno di noi, persino io potrei averlo fatto, così come ognuno di noi che sia stato studente e che mai si sia sentito valorizzato, amato e apprezzato, nonostante una infinitupla e interminabile serie di vani sforzi.
Caro Quintiliano, spero che tu non possa mai prendere coscienza di come quotidianamente il tuo nome venga così tristemente infangato e i tuoi insegnamenti calpestati e stracciati.
Ci viene detto e ripetuto chissà quante volte di ispirarci ai grandi classici che hanno fatto la nostra storia, di leggere, di studiare e di coltivare tutto l’immenso patrimonio trasmessoci… eppure, così tristemente, nessuno mai intende accorgersi della grandezza dei tuoi pensieri e comprenderti, come se ormai le tue parole fossero troppo lontane dal nostro mondo provato.
Ci destreggiamo a fatica nella scuola dei venduti, di chi con qualche fittizio e squallido elogio dettato dalla più ignobile volontà di strappare una sufficienza o anche solo di mettersi in mostra – ma senza mostrare nulla se non la propria pochezza intellettuale – cerca disperatamente di accalappiare i favori di docenti sconsiderati e volontariamente ignari che seguitano nella loro smania di sentirsi falsamente elogiati da parole melliflue, considerando la palese penuria del loro spessore culturale e morale. “In vero, quella sbagliatissima abitudine, che ormai chiamano cortesia, di lodarsi per qualsiasi intervento non solo è poco decorosa e ipocrita e non ha nulla a che vedere con le scuole serie, ma è anche pericolosissima nemica degli studi: se c’è pronto l’elogio per qualsiasi parola esca di bocca, diligenza e fatica appaiono inutili.”
Una citazione con cui Quintiliano descrive il vuoto fragore dei complimenti blandenti e dannosi, tanto rivolti dagli studenti ad altri studenti o ai docenti, quanto i docenti agli stessi studenti. Il lodare e il premiare sempre e solo gli stessi allievi, gettando nel dimenticatoio degli elogi tutti gli altri, trascinando questi ultimi nello sconforto e nell’indolenza.
La sterilità di pensiero ha accattivato le menti belanti. Nessun docente riesce davvero ad accendere e a far esplodere l’amore per la cultura, nessuno che riesca a far splendere l’ardore della conoscenza. Non sanno guidarci alla fine di un anno scolastico, figuriamoci alla alla vita stessa.
Come se le correzioni, i rimproveri, le precisazioni fossero nient’altro che una becera ostentazione della loro presunta superiorità dovuta a qualche anno in più, come se le loro prediche piene di astio e fragore non fossero altro che una cieca necessità di prevalere sulle menti assai più deboli dei ragazzi, che non ne attingono affatto utilità, ma solo un motivo in più per odiare ancora e ancora la scuola.
Come se nessuno ci avesse davvero a cuore, come se fossero lì solo per bisogno e mai per vocazione, sempre per necessità e mai per nostro amore. Come se l’unico vessillo fosse solo la memoria, mai i ricordi, sempre le nozioni e mai le opinioni.
La coscienza critica muore ogni giorno nello stesso momento in cui si mette piede in classe. E oggi, come allora, sembra ancora che nulla sia cambiato. Il fasto sprezzante delle declamationes, insulsi esercizi volti solo a ottenere plausi e riconoscimenti, si concretizza ora nella spregiudicata inutilità dei programmi scolastici, la trattazione dei quali annienta e fa soccombere in un funesto vortice di nulla ogni struttura esistente di pensiero critico da parte degli allievi.
All’inizio dell’impero per Quintiliano, non ci fu affatto vita facile: l’oratoria non era più libera di essere praticata, perché il regime imponeva un marcatissimo controllo della libertà di espressione. Le scuole erano piegate a questa medesima volontà di controllo che demonizzava ogni libera presa di posizione. Sempre a distanza di duemila anni, credo che non sia ancora cambiato niente.
La scuola resta una subdola produzione in serie di menti tutte uguali, infarcite di luoghi comuni, stereotipi e soffocate da imposizioni ideologiche esterne.
La scuola si rivela decennio dopo decennio il posto più lontano dalla cultura in cui io potessi mai immaginare di ritrovarmi. Un tripudio di beata ignoranza e meccanizzazione dell’apprendimento che ci distrugge dal profondo, negandoci i più basilari diritti di confronto e di benessere.
Un posto in cui tutti agiscono ma nessuno coopera. Dove tutti studiano, ma non c’è studium, nella sua primigenia accezione latina. Un posto in cui tutti sono in dovere di sentire, ma nessuno più è tenuto ad ascoltare. Dove si impartiscono lezioni ma non si insegna mai nulla. Dove si parla, ma non si pensa. Dove si vive, ma non si ama.















