Sono stato un adolescente, ancorchè minorenne, che ha avuto la fortuna di compiere esperienze di viaggio, senza genitori al seguito e alcune volte in solitaria, in Europa e in Oriente. Prove di autonomia dalla famiglia, dagli amici, dai luoghi riconoscibili della città in cui vivevo, che in seguito si sono dimostrate utili per la mia formazione e la mia autostima, che mi hanno aiutato ad affrontare e superare gli ostacoli a cui la vita mi ha messo di fronte.
Un’occasione che oggi non è concessa alla generazione dei millennial. Penso ai tanti ragazzi che hanno la necessità di scoprire il mondo, di confrontarsi con i loro coetanei, di andare oltre la propria classe, la propria scuola, la piazza dove hanno abitudine a ritrovarsi. Alla necessità di fare esperienza, di cominciare a capire le distanze del mondo, non solo in senso geografico/temporale, ma di costumi, usanze, stili di vita, di tutto ciò che tende a rendere un’ identità propria e diversa dagli altri. Alla necessità di vivere esperienze fuori dalla propria famiglia perché, negli anni della formazione, un ragazzo scinde il suo mondo da quello della propria casa, ponendoli in due emisferi separati. Il mondo non è il suo spazio domestico. Per un ragazzo il mondo è soprattutto quello che avviene fuori dalla famiglia, quasi fino a sentirsene estraneo. Il mondo sono gli amici, la scuola, la palestra, il campo di calcio, la piscina, la piazza dove crea e incontra affetti, amicizie e anche rotture.
Ecco, in questo 2020, tutto questo è diventato impossibile. Non parlo solo di viaggi, di treni, di aerei, di Erasmus che, all’inizio degli anni ’80, ancora non esisteva. Parlo di cose più semplici e utili alla socializzazione, come il circolare liberamente in una piazza, frequentare insieme una classe. Quanto inciderà l’assenza di tutto ciò nella formazione della personalità di alcuni ragazzi? Quanti timori, patiti oggi, daranno incertezza al loro cammino e al loro futuro?
Perché se “le frontiere sono dove le trovi”, paradossalmente al tempo del Covid è proprio il mondo globalizzato che impone ai ragazzi di non oltrepassare la frontiera della propria casa. Sì, d’accordo, oggi abbiamo il web, i social, gli smartphone e tutto il resto, tutti strumenti che permettono di essere on line, ma la connessione di cui parlo è un’altra. Sorrisi, calori, colori e anche bianco e nero, sono un’altra cosa quando sono vissuti senza mediazione e tool. Oggi tutto questo si è interrotto a causa di un accesso impedito che, per carità, sembra essere l’unica strada per bloccare un contagio collettivo, andato oltre il muro del pessimismo più nero dal suo arrivo nel marzo scorso.
Come provare a scrutare il futuro e chiederci quale impronta avrà sulla personalità dei ragazzi quel che sta avvenendo, quando tutto questo sarà passato? Gli psicoterapeuti se ne stanno occupando con grande attenzione, ma mi chiedo: c’è sufficiente attenzione nel mondo della scuola che impiega inutilmente il suo tempo per cambiare i vecchi banchi con nuovi dotati di rotelle?
mi riferisco ai singoli insegnanti ovviamente, ma invece a una sensibilità che non abita nei burocrati dei ministeri, nell’impreparazione di chi è chiamato a governarli. Quando l’emergenza globale del virus sarà superata e il cielo tornerà sereno, come guarderanno alle nuove nuvole che avanzeranno all’orizzonte per le emergenze non risolte questi adulti del futuro?
















