Una sfida di oltre tremila anni, vinta meno di un secolo fa. Che ci ha lasciato capolavori d’urbanistica come Pomezia
“L’angolo più selvaggio e affascinante d’Europa”. Così Goethe descrisse le Paludi Pontine alla fine del 1700. Era il giudizio di un turista: oltre al pittoresco che attraeva i romantici c’era la realtà durissima di terre inospitali e infestate dalla malaria dove tuttavia la razza umana era sopravvissuta.
Pomezia sorge all’estremo lembo nord di queste paludi. Il nome riprende la mitica Suessa Pometia, antichissima città finora non identificata, che a sua volta potrebbe essere collegato alla dea Pomona e ai “pomi”, i frutti, segno della fertilità del suo suolo. Un suolo che è stato riconquistato all’acquitrino malarico col lavoro, iniziato nel 1928 e portato a termine in soli 10 anni. Il 25 aprile del 1938 Mussolini posò la prima pietra della futura città. Diciotto mesi dopo i primi coloni prendevano possesso di case e poderi: erano romagnoli, seguiti poi da trentini, ex sudditi asburgici provenienti dalla Bosnia. Le realizzazioni architettoniche e urbanistiche dell’impresa di Pomezia sono diverse. Al progetto lavora il gruppo 2PST: gli architetti Concezio Petrucci e Mario Tufaroli Luciano e gli ingegneri Emanuele Filiberto Paolini e Riccardo Silenzi, già progettisti della città di Aprilia. Molti gli edifici costruiti nei pochi mesi di pace fra la fondazione e la guerra: l’attuale Piazza Indipendenza con la Casa Comunale sulla quale domina la Torre Civica, distrutta durante la guerra e ricostruita sul progetto originario; la chiesa di San Benedetto Abate, con la facciata monumentale ornata dalle “Storie di San Benedetto” dello scultore Venanzo Crocetti; la Casa del Fascio e la sede delle Poste e Telegrafi. Alle spalle della Casa Comunale è collocato l’edificio della GIL (Gioventù italiana del littorio), composto da una scuola, un asilo e una palestra.
La bonifica delle paludi che partono da Piombino e finiscono al Circeo era un debito d’onore lasciato da tutti gli antenati dell’Italia: il primo colono, Enea. Poi Volsci, Romani, Ostrogoti fino alla Chiesa e al regno unitario. Vincere questa sfida era un’impresa che era sfuggita persino a imperatori e papi. Con tutte le ricadute di immagine che un simile successo avrebbe comportato – e difatti comportò. Inoltre avrebbe significato una realizzazione rivoluzionaria: il Regime avrebbe dato la terra ai lavoratori. Ma non espropriandola con la forza ad altri italiani (anche se vaste aree delle bonifiche erano terre delle famiglie nobili, che furono obbligate a cederle al demanio dietro compensi poco più che simbolici). La terra sarebbe stata conquistata alla natura selvaggia e ostile. La bonifica sarebbe stata dunque il segno di una rivoluzione unica ed originale, la prima che non avrebbe messo gli uomini l’uno contro l’altro secondo una logica di classe, bensì li avrebbe accordati con un obbiettivo comune secondo una logica organicistica. Questo sarebbe stato anche il primo passo di quella ingegneria sociale che il Fascismo tentò invano di realizzare – stroncato dalla guerra – e che nelle intenzioni doveva creare una società nuova, sostenibile, rurale e giusta.
L’idea traspariva già dalla struttura che si impose al territorio, descritta magistralmente da Pennacchi: città di piccole dimensioni, borghi rurali, cascine coloniche raggruppate a gruppi di quattro, sufficientemente lontane fra loro da evitare il sovraffollamento ma abbastanza vicine da essere a portata di voce, e creare tessuto sociale e coordinazione del lavoro. Su tutto questo si stendeva una concezione militare della vita, eredità della guerra appena combattuta e vinta dal popolo italiano. I coloni erano ex combattenti e si ritrovarono a combattere di nuovo, stavolta non contro gli austroungarici ma contro la natura. Ribattute le spade in aratri i soldati cambiarono solo l’arma in pugno. E il nemico.
Fino a 90 anni fa questo nemico l’aveva sempre spuntata: foresta e palude rimanevano padrone soprattutto a sud di Roma, e l’infeudamento vi trovò anche i suoi vantaggi, ignorando la bonifica per privilegiare lo sport dei nobili: la caccia. Poco prima della rivoluzione francese Pio VI (1775-1799) era riuscito a strappare ben 30 mila ettari alle paludi. Ma il processo si arrestò. Dopo l’Unità, Garibaldi presentò in Senato una sua proposta. Il colonialismo in Africa creò facili paragoni fra i tucul eritrei e le lestre, le capanne dei pastori che vivevano in un perenne medioevo. L’impegno di molti intellettuali portò a qualche miglioramento: furono costruite scuole (alle quali lavorò anche Duilio Cambellotti, fra i principali protagonisti dell’esperienza artistica di Littoria-Latina, prima e dopo la guerra), ma i risultati restavano scarsi. Occorse la Grande Guerra perché le cose cambiassero: nel 1917 viene creata l’Opera Nazionale Combattenti e ai soldati è promessa la riforma agraria e l’assegnazione di un appezzamento di terra. Ma il difficile dopoguerra rese lettera morta le promesse. Le cose cambiarono solo con la rivoluzione fascista. Fin dal 1924 la bonifica “integrale” divenne uno degli obbiettivi: non solo le paludi, ma ogni area marginale d’Italia. Bisognava bonificare per tenere gli uomini nelle loro terre e spingerli a non emigrare: gli italiani dovevano poter vivere del loro senza dover pietire all’estero. La crisi del 1928 accelerò gli eventi, e con la Legge Mussolini dello stesso anno la gestione della bonifica passò direttamente nelle mani dell’Opera Nazionale Combattenti. La legge imponeva l’esproprio dei terreni incolti, incontrando la resistenza di latifondisti e nobili, che furono piegati a forza. Non meno difficile da sottomettere dei latifondisti (che pure bon grè mal grè produssero centinaia di appoderamenti) fu la natura: foreste impenetrabili furono trasformate in legname da lavoro. I pastori furono obbligati a rinunciare alle loro abitudini ancestrali: ottennero il permesso di continuare a pascere il loro bestiame, con l’obbligo di non fargli invadere i campi coltivati.
Il progetto fu assegnato a ingegneri di primissimo livello: fu realizzata una topografia incredibile, con curve di livello di soli 50 cm, quasi impensabile in un’epoca in cui non esistevano foto satellitari e computer. Purtroppo non ne è rimasto nulla, a causa degli eventi bellici. Ai lavori parteciparono decine di migliaia di operai da tutto il Paese. I sindacati fascisti organizzarono questa immensa massa di lavoratori fornendo loro dormitori, refezione, assistenza sanitaria, vieppiù necessaria laddove la malaria imperversava. Il tributo di sangue fu gravoso e considerato non meno eroico e valoroso di quello delle trincee della Grande Guerra. L’afflusso di maestranze era rigidamente regolato, ma non infrequenti erano coloro che partivano, anche a piedi, dagli estremi angoli d’Italia per andare a trovare un lavoro: il nostro era un popolo che non sapeva stare con le mani in mano.
Al centro della bonifica integrale vi era la fondazione delle Città Nuove, modelli d’urbanistica razionale: nel giro di otto anni, solo nel Basso Lazio furono edificate dal nulla Littoria (Latina) nel 1932, Sabaudia nel 1934, Pontinia nel 1935, Aprilia nel 1937, Pomezia nel 1939; a queste “città di fondazione” si aggiunsero quattordici Borgate Rurali realizzate dall’ONC e circa cinquemila poderi.
Nel 1943 la guerra si abbatté su questo angolo di ordine e sviluppo: bombardamenti, lo sbarco alleato ad Anzio. I coloni furono obbligati ad evacuare, le città di fondazione duramente bombardate e i cantieri interrotti. Quando i tedeschi si ritirarono, si abbandonarono a saccheggi e demolizioni: furono sabotate le opere idrauliche affinché l’acqua invadesse i campi e ostacolasse l’avanzata nemica. Tornò la malaria.
Il dopoguerra fu una lenta e dolorosa ricostruzione. Il DDT consentì l’annientamento della zanzara anofele, portatrice della malaria. I coloni si riappropriarono dei resti dei loro poderi, ma molti emigrarono di nuovo. La vecchia società agricola voluta dal Fascismo non era più in linea coi tempi nuovi che arrivavano, e il miraggio del posto in fabbrica prese il posto del sogno di un podere rurale e di una famiglia numerosa. Frattanto l’industrializzazione arrivava anche nella provincia di Latina – così era stata rinominata Littoria – e vasti appezzamenti di terreno fertile furono riconvertiti per ospitare fabbriche. Le città di fondazione crebbero rapidamente – man mano che le campagne si spopolavano – ma disordinatamente. Quello che sarebbe dovuto essere un esperimento di ingegneria sociale ed ambientale venne travolto dalla “mutazione antropologica” descritta da Pasolini. Era la nuova Italia, e della vecchia restavano solo le mirabili opere d’architettura razionale come testimoni.